Il regista di The Look of Silence passa al cinema di finzione trascinandoci in un bunker di lusso abitato dall’ultima famiglia sopravvissuta sul pianeta. Una fastosa arca di Noè per miliardari tappezzata di opere d’arte. «Il musical è il genere che sfoggia la maschera dell’illusione e del cieco ottimismo anche se in fondo non c’è speranza. Un autoinganno. Racconto lo stato dell’umanità di oggi, i personaggi non hanno nome perché siamo tutti noi, se continuiamo così ci estingueremo»
Dopo aver rotto il silenzio sul genocidio indonesiano commesso dall’esercito del generale Suharto negli anni ‘60 con due documentari shock, The Act of Killing ( 2012) e The Look of Silence (Gran premio della giuria a Venezia 2014), il regista candidato all’Oscar Joshua Oppenheimer passa al cinema di finzione con un musical post-apocalittico che ci trascina sei metri sotto terra, in un bunker di lusso abitato dall’ultima famiglia sopravvissuta sul pianeta.
Una fastosa arca di Noè per miliardari tappezzata di opere d’arte, dove mamma Tilda Swinton, ex ballerina del Bolshoi, papa Michael Shannon, ex industriale, e il candido figlio George MacKay vivono barricati insieme a un maggiordomo, un cuoco e un’amica in un simil eden disperatamente perfetto. Peccato che questo “felice” quadretto canterino si sgretolerà con l’arrivo di una misteriosa superstite (Moses Ingram).
Ispirato a Samuel Beckett e Jacques Demy, The End è un allegoria politica che punta il dito sulla negazione della realtà e ci fa riflettere sui mostri ordinari del nostro presente. Il film, presentato allo scorso Biografilm Festival di Bologna, è in sala dal 3 luglio distribuito da I Wonder Pictures.
Perché ha deciso di passare dal documentario alla quintessenza del cinema di finzione: il musical?
Non nasco veramente come documentarista, la mia formazione è ibrida. Il mio mentore, il regista Dušan Makavejev, ha sempre mischiato finzione e documentario nel suo cinema.
Volevo realizzare un terzo film in Indonesia sugli oligarchi che si sono arricchiti spolpando un Paese messo in ginocchio dal terrore e dal genocidio. Dopo l’uscita di The Look of Silence ero diventato persona non grata in Indonesia, così ho iniziato a indagare sugli oligarchi nel mondo che avevano fatto i soldi sulla pelle degli altri e ho scoperto un magnate del petrolio dell’Asia centrale che aveva ottenuto le sue concessioni petrolifere con la violenza e stava costruendo un bunker molto simile a quello del film.
Mi invitò a visitarlo insieme alla moglie che ha passato il tempo al telefono con la sorella a parlare dell’adorato nipotino. Così gli ho chiesto: «Porterai tua sorella e la sua famiglia nel bunker?». E lei, adombrandosi per un attimo, mi ha risposto: «Oh… ma non ci sarà spazio». Ed è scoppiata a ridere. Quella risata, che tradiva la sua volontà di ignorare la propria famiglia, mi colpì a tal punto da rimanerne ossessionato. Da lì ho iniziato a interrogarmi sul senso di colpa, un sentimento che chiunque ha provato almeno una volta nella vita. Mi sono chiesto: come si affronta la responsabilità di una catastrofe da cui si è sfuggiti costruendo un bunker? Come si gestisce il rimorso per non aver portato con sé i propri cari?
All’uscita di The Look of Silence, Werner Herzog mi aveva suggerito di passare al cinema di finzione, e così mi sono detto che forse questo era il progetto giusto. Mi è venuta l’idea di un musical perché è un genere che sfoggia la maschera dell’illusione e del cieco ottimismo anche se in fondo non c’è speranza. In realtà è il lupo della disperazione travestito da pecora della speranza, è autoinganno, ed è così che è nato The End.
Il film è inquietante perché è molto contemporaneo, racconta la negazione delle catastrofi umanitarie, sociali e ambientali che stanno accadendo intorno a noi. Pensa che stiamo tornando a quella che Hannah Arendt chiamava la banalità del male?
Credo che non ne siamo mai usciti. Hannah Arendt ha scritto nel contesto storico di Eichmann e dell’Olocausto, ma il fascismo non è scomparso, non è stato sconfitto dalla Seconda guerra mondiale.
È stato esportato deliberatamente e con cura nel Sud del mondo ed è di questo che trattano i miei film The Act of Killing e The Look of Silence. Abbiamo assistito in questi ultimi 50 anni all’ascesa di un ordine neoliberista che ha brutalmente imposto un capitalismo globalizzato neocolonialista, con gravi conseguenze sociali e disfunzioni politiche che riflettono ogni volta la banalità del male.
Comuni burocrati che fanno i loro affari, provocando le crisi del nostro presente. The End finge di parlare di un futuro post-apocalittico ma in realtà parla del presente. Non metto in scena l’ultima famiglia umana superstite, ma racconto lo stato dell’umanità di oggi, i personaggi non hanno nome perché siamo tutti noi, e se continuiamo a vivere così, precipiteremo verso l’abisso, ci estingueremo.
C’è una battuta cantata dal padre nel suo film che dice: «Proviamo troppa compassione per i nostri errori, siamo di buon cuore…».
Tutti nel film cantano bugie, la verità è nel silenzio. Il padre sa intimamente quanto è corrotto e fasullo e questo lo fa stare male, per questo cade nell’autocommiserazione, cantare è una via di fuga sentimentale in cui immagina di scalare allegramente una montagna, ma quando arriva all’apice è talmente sopraffatto dalle emozioni che istintivamente si butta giù, e invece di morire diventa un sopravvissuto perfetto.
La fantasia del suicidio lo assolve e lo rende una vittima che prova troppa pena per i suoi errori. Sa che è una bugia, ma il semplice fatto di aver provato quelle emozioni lo rassicura e lo fa sentire un brav’uomo.
Certo l’importante è crederci… viviamo in un’epoca di finzione secondo lei?
Certo. Per questo i social media sono così pericolosi. Ogni volta che mi imbatto in una storia terribile sul genocidio a Gaza, che tra l’altro viene perpetrato in mio nome in quanto ebreo, mi viene istintivamente voglia di pubblicare un emoji indignato o con il cuore spezzato.
Attraverso il mio gesto sentimentale che vuole esprimere compassione, mi illudo di aver fatto qualcosa e di aver dimostrato il mio dissenso. Questo mi autorizza a spostare la mia attenzione su qualcosa di più divertente, senza mai uscire da questa piccola bolla, questo bunker virtuale in cui mi limito a competere con altri individui. Ma se mi fermassi solo un attimo e mi chiedessi: cosa devo fare davvero adesso?
La risposta sarebbe cambiare radicalmente, andare a una protesta, usare qualsiasi piccola piattaforma io abbia, come sto facendo proprio ora in questa intervista, per gridare a gran voce: basta con questo massacro!
Non crede che anche nel documentario ci sia qualcosa di profondamente falso? Alla fine è comunque una messa in scena della realtà no?
Sì, ed è questo il motivo per cui ho fatto questa transizione verso il cinema di finzione. Ogni volta che un documentario è interessante dal punto di vista cinematografico è perché c’è una distanza tra come il soggetto vuole essere rappresentato e come è intimamente.
È questo divario, questa parte di non detto che c’è tra te e il tuo protagonista che crea il sottotesto del documentario e lo rende speciale. Ogni volta che si filma qualcuno si crea una realtà con quella persona, ma nel caso del documentario come si fa a parlare di sottotesto con il soggetto filmato? Vorrebbe dire smascherarlo, renderlo insicuro e cosciente di sé stesso, diventerebbe come un attore che ha ricevuto delle pessime indicazioni.
In questo film invece ho potuto avere un dialogo trasparente con attori veri con cui ho potuto lavorare sul sottotesto, ed è stato una liberazione e un percorso di crescita.
Da dove nasce questa sua ossessione per la verità nascosta, per quel “sottotesto” che svela il personale più profondo?
Sono cresciuto con due genitori divorziati che si sono trasferiti in parti opposte del Paese. Da bambino facevo la spola e cercavo in ogni modo di compiacerli per non essere abbandonato. Erano sempre in conflitto tra di loro e io cercavo di stare dalla parte dell’uno e dell’altro, anche se le loro narrazioni erano contrastanti.
Così sono diventato bugiardo e condiscendente, e in un certo senso disonesto. Più tardi nel mio lavoro ho deciso di essere intransigentemente onesto con il mondo. Il tema principale dei miei film è l’autoinganno e la dissonanza cognitiva, e mi sono reso conto che con il documentario non potevo veramente essere sincero con i miei protagonisti.
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