Rinascita, rinascimento, risorgimento, resurrezione sono sinonimi? È più decoroso tollerare i colpi dell’avversa fortuna (non è mia) o vivere le crisi come opportunità, secondo il mantra biecamente predicatorio dei tagliatori di teste aziendali?

Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti e Tim Burton, grosso modo coetanei, hanno affrontato il bivio praticamente in contemporanea. Sarà un mix stravagante, ma da spettatori abbiamo patito una doppia assenza.

Come Andrea nella canzone di Fabrizio De André, si sono persi. A differenza di Andrea, loro sanno tornare. Tutti abbiamo percepito la separazione consensuale dopo il disastroso Fuga da Reuma Park, nel 2016, come un divorzio definitivo. Nello show business il prendersi tempo non è contemplato. Ognuno per la sua strada: Aldo col suo primo film in solitaria, Giacomo col suo teatro Oscar di Milano, Giovanni diviso tra la passione naturalistica e i nuovi amici della scena romana.

Oggi dicono, saggiamente, che fa sempre bene capire dove si può andare con i propri piedi. Quel Reuma Park che sembrava un patchwork in economia di vecchie frattaglie poteva andare al massimo in televisione. «Ma è quando ti sloghi una caviglia – dice Aldo – che diventi più forte di prima».

Un matrimonio

Due anni fa Odio l’estate, stoppato solo dal dilagare del Covid, è stato un ritorno solare. Un ritorno con l’orgoglio delle proprie rughe, metaforicamente. Non ci hanno messo una vita a farsele, come Anna Magnani, ma quarant’anni (Aldo e Giovanni) e trenta (con Giacomo) sì. Il 22 dicembre arriva Il grande giorno, diretto di nuovo da Massimo Venier, come ai bei tempi andati.

Che ha solo il limite di misurarsi con uno dei temi più usurati del cinema: le feste di nozze. Troppa storia alle spalle per dire qualcosa di nuovo. Nemmeno il genio di Robert Altman riuscì a fare di Un matrimonio un capolavoro. E la coralità, tra imprevisti e disastri, funziona solo con una sceneggiatura di ferro: era il segreto del memorabile C’est la vie!, penultima fatica di un grande Jean-Pierre Bacri diretto da Eric Toledano e Olivier Nakache.

Anche Il grande giorno sfrutta le potenzialità comiche dell’ostentazione megalomane: villa patrizia in affitto e quattrini a perdere per festeggiare l’unione dei figli di Giovanni e Giacomo, titolari della Segrate Arredi, che fabbrica divani.

Chi ricorda Il padre della sposa, con cui una settantina di anni fa Vincente Minnelli fece incetta di Oscar, sa di cosa parliamo. Giovanni sperpera e Giacomo ingoia antiacidi. Con la non piccola differenza che la grandeur qui ha anche intenti promozionali e include una volgarissima esposizione Divani nel Tempo a beneficio dei migliori clienti e della Confartigianato locale.

Il ruolo di Demolition Man tocca ovviamente ad Aldo, fidanzato terrone e straripante di Lucia Mascino, che è la ex moglie di Giovanni. È un’arma di distruzione di massa a piede libero, e manderà a rotoli l’intero cerimoniale, fracassando perfino il Cardinale Bobo Citran, ambitissimo celebrante degli sponsali.

Anche il debutto nel cinema di A, G e G, Tre uomini e una gamba, era un viaggio verso un matrimonio, ma giocava su un rodato canovaccio teatrale. Qui gli sviluppi virano sulla malinconia delle certezze che si sfaldano, delle verità familiari che vengono a galla.

Il trio rinuncia a puntare sullo slapstick elastico della primaria formazione da mimi, ma non rinuncia alla grazia, alla simpatia umana, alla sua storica allergia alla volgarità. Qualche rivoluzionaria serie tv, penso a Fleabag, ci ha insegnato che si può osare molto di più.

Loro non osano, rispettano le convenzioni e per esempio non fanno cedere il loro pretino naif (a tariffa) alle tentazioni carnali. Ma riescono a consegnarci, in finale, un’idea laica e illuminata di famiglia, dove i vincoli ufficiali contano meno della consuetudine e dei veri affetti sedimentati.

La débacle di Dumbo

La crisi congiunturale di Tim Burton era iniziata ancora prima, da quel Big Eyes del 2014. Il successivo Miss Peregrine/La casa dei ragazzi speciali era un prodotto amorfo, non stilisticamente riconoscibile. Ma il Dumbo del 2019 per i cultori fu un autentico shock.

Aveva paradossalmente rimosso la sequenza più trasgressiva dell’intera epopea disneyana. Nel suo remake griffato in live action si sterilizzava il “viaggio” lisergico dell’elefantino in epica sbronza che rende così anomalo il cartoon del 1941, un incubo alcolico che anticipava di decenni la psichedelia visionaria da acido. Suonava politicamente scorretta l’assunzione di alcolici da parte di un minorenne? Autocensura di casa Disney, avallata dal rinnegato e poi figliol prodigo Burton? Una débacle spirituale.

La folta tribù degli orfani presunti oggi rifiata scoprendo che Mercoledì è diventata in poche settimane la seconda serie in lingua inglese più vista di sempre su Netflix. Le strade della longeva famiglia Addams (icona goth fin dai fumetti del 1938-39 sul New Yorker) e quelle dell’autore di Sleepy Hollow finora non si erano mai incrociate, in barba alla predilezione comune per la necrofilia, il macabro della porta accanto, i reietti e gli emarginati.

Tim Burton (anche co-produttore della serie) ha diretto solo i primi quattro episodi, ma l’imprinting non è un’opinione. Mercoledì (Wednesday), per chi non lo sapesse, è la figlioletta di Morticia e Gomez Addams (Catherine Zeta Jones e Luis Guzman, caricaturali fino al grottesco), ed eclissare la prova di Christina Ricci nei due film di Barry Sonnenfeld degli anni Novanta non era uno scherzo.

Edgar Allan Poe

So bene che la fortuna di questa serie dipende in gran parte dalla nostalgia di Harry Potter: c’è un college tenebroso genere Hogwarts, anche qui, popolato di outcast, freak e reietti, adolescenti vampiri, licantropi, sirene e gorgoni. Horror e soprannaturale sono di casa.

Per i palati adulti però il vero pregio sta nei dettagli meno vistosi. Jenna Ortega, che interpreta Mercoledì tredicenne, sembra la sosia al femminile di Johnny Depp, storico attore-feticcio di Tim Burton. Edgar Allan Poe è usato a piene mani, ma da competenti: il college si chiama Nevermore (parola-chiave del poema The Raven, che ha ispirato anche l’ultimo Lou Reed), la gara sportiva che sostituisce il Quidditch dei maghetti ha in palio la Coppa Poe e ogni squadra ha il nome di un racconto celebre ( Il gatto nero, Il pozzo e il pendolo, La maschera della morte rossa..), il ballo è un Raven Party, e il corvo sulla statua dello scrittore è la molla di un passaggio segreto. Per i lettori compulsivi è una manna.

L’humour nero governa anche la scelta delle canzoni. Quando la tetra Mercoledì, bullizzata nella scuola pubblica comicamente intitolata a Nancy Reagan, libera un branco di piranha nella piscina, la Piaf intona Je ne regrette rien. Quando si dedica al suo violoncello, converte Paint It Black degli Stones in un requiem, anche se saranno in pochi a notarlo.

È un dark, beninteso, castigato per via del target, ma il sarcasmo della ragazzina ‘strana’ verso il consumismo tecnologico dei freak coetanei non di rado ha una pregevole qualità di scrittura. I social media, per dire, sono “un vuoto succhia-anime pieno di affermazioni senza senso”.

Se le sue idiosincrasie fanno scuola, i nostri pargoli pretenderanno la sfera di cristallo al posto del cellulare. Che poi la sequenza del suo balletto stralunato sia diventata virale su TikTok è ovviamente nell’ordine delle cose. L’essenziale è che questi nostri vecchi amici smarriti, Tim, Aldo, Giovanni e Giacomo – se accomunarli non vi suona irriverente – abbiano ricominciato a sognare.

Perché dopotutto, come diceva Poe, tutto quello che vediamo, e tutto quello che sembriamo, altro non è che un sogno dentro un sogno.
 

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