A Patti Smith è andata bene. La sua indefettibile passione per Pinocchio (confessata a ripetizione, e non solo a me ) non l’ha mai indotta a dedicargli un verso o una nota. 

Buon per lei, perché il burattino di Carlo Collodi, ispiratore di passioni ossessive e brucianti, è una insidiosa buccia di banana. Favola nera italiana da esportazione con risvolti cupissimi ( puntualmente smussati da molte illustri riletture cinematografiche) non ha mai portato fortuna a chi l’ha affrontata. Fa eccezione la serie del 1972 diretta per la Rai da Luigi Comencini, non a caso strutturata a episodi a somiglianza dell’originaria La storia di un burattino, uscita a puntate tra il 1881 e il 1882 sul Giornale dei bambini. Non sono molti i casi di feuilleton fantasy acclamati come capolavori letterari e universali romanzi di formazione. Per Benedetto Croce, «il legno in cui è intagliato Pinocchio è l’umanità». 

Sulla buccia di banana sono scivolati in parecchi, e quasi sorprende la pervicacia degli autori nel misurarsi con questa storia. L’ultimo confronto-scontro è tra due superpotenze. Da settembre Disney+ ospita il Pinocchio di David Zemeckis in live action, con Tom Hanks nel ruolo di Geppetto, ma il Pinocchio di Guillermo Del Toro, scritto proprio così per intero come Dracula di Bram Stoker, dal 4 dicembre in sala e dal 9 su Netflix, a soli tre mesi di distanza ne cancellerà la memoria.

Una buccia di banana  

La buccia di banana non è un’opinione. Tralasciando il primo approccio italiano dei tempi del muto, firmato da Giulio Antamoro nel 1911, e saltando parecchie tappe, il Pinocchio di casa Disney nel 1940 fu un flop al botteghino, in barba ai due Oscar musicali. Era intriso di moralismo, ma tecnicamente un prodigio. Nel mondo però si pensava alla guerra. Tra i ruoli del giovane Vittorio Gassman nessuno ricorda il suo Pescatore Verde nella versione diretta da Giannetto Guardone nel 1947. Nel 1971 il Pinocchio di Giuliano Cenci fu eclissato dal successo ravvicinato di Comencini.

Nella trentina di titoli ad oggi, compresa la stravagante declinazione horror di Kevin S. Tenney (Bad Pinocchio, 1996), Roberto Benigni doveva segnare la pietra miliare. Contro ogni pronostico, il suo Pinocchio del 2002 fu un capitombolo: una scommessa travolta dal peccato di fedeltà. In tempi di edonismo berlusconiano, dal comunista Benigni ci si aspettava quella lettura politica del Paese dei Balocchi che Mediaset suggeriva. Restai sbigottita quando Vincenzo Cerami, ancora al lavoro sulla sceneggiatura, mi disse che l’opera non si poteva inquinare con la polemica spicciola. Dieci anni dopo, anche l’animated feature nostrana di Enzo D’Alò passò inosservata, benché a impreziosirla ci fosse la voce rimpianta di Lucio Dalla. Matteo Garrone, nel 2019, è stato l’ultima vittima dell’ossessione-Pinocchio. Vittima si fa per dire: cinque David di Donatello (ma tutti tecnici, su quindici candidature), e una sofferta bocciatura agli Oscar.

Sembra un paradosso, ma il troppo rispetto per Carlo Collodi, o forse per il dogma del target infantile, ha sistematicamente tradito l’anima trasgressiva dell’opera. Collodi incute soggezione ai suoi cultori, ma scrive di bambini impiccati, incatenati come cani, con i piedi bruciati, corrotti dal consumismo. Le incarnazioni del Potere hanno sembianze animalesche. I “giandarmi” (sic) e i carabinieri sono figure ostili, i giudici amministrano l’ingiustizia. Pinocchio “deve” fare paura.

La rivoluzione di Guillermo Del Toro

Guillermo Del Toro è un horrorista. Le fiabe dark e politiche sono il suo pane. Non considera i riferimenti politici un fattore inquinante. Le milizie franchiste del suo Il Labirinto del Fauno sono le incarnazioni degli incubi, più temibili dei freak creati con gli effetti speciali. È lui stesso a collegare questo suo debutto nell’animazione, in gestazione da decenni, al Labirinto. Pinocchio era il suo sogno, la sua passione ostinata. Per questo si prende la libertà di rivoluzionarlo: «Mi sono chiesto se potevo fare un Pinocchio che celebrasse la disobbedienza anziché l’obbedienza».

Non c’è nel suo film il classismo feroce di fine Ottocento, ma l’Italia fascista del Duce, con le sue tenebre e i suoi lacchè. È spudoratamente, corrosivamente attuale. L’animazione in stop-motion non è concepita per ingentilire ma per illividire il racconto. E l’antefatto stesso è funereo: mastro Geppetto perde il suo vero figlio bambino sotto una bomba della Grande guerra. Da scultore di crocifissi per la chiesa locale diventa, per disperazione, un avvinazzato rifiuto umano. La furiosa creazione del burattino, in una notte di tempesta, è una replica di Frankenstein: nel suo delirio, il vecchio intaglia in un tronco di pino le rozze sembianze del figlio.

La tana di un grillo ramingo, aspirante scrittore, è in quel tronco al posto del cuore. Il ribaltamento operato dal regista messicano è radicale: non è il burattino a dover conquistare lo status di essere umano, è il padre-creatore che deve imparare ad amarlo per quello che è. I nostalgici di Gina Lollobrigida nei panni della Fata Turchina comenciniana si attrezzino: qui è una sorta di sfinge alata, con tanto di coda, e ha per sorella la Morte. Sono i due poli dell’esistenza in cinquanta sfumature di blu. Lo stesso Pinocchio, con le  gracili membra da insetto prese dalle illustrazioni di Gris Grimly, è tutt’altro che accattivante. Tanto da diventare ipso facto, appena si materializza durante la messa del paese, un reietto, un anormale che minaccia la comunità, un dissidente e un libero pensatore.

Il faccione di Mussolini sul proverbiale «credere, obbedire, combattere» domina l’abitato, potere religioso e politico marciano in coppia: il viscido parroco è al servizio del podestà. Al mostriciattolo impongono di andare a scuola per diventare «un piccolo fascista modello» come Lucignolo.

Tanti saluti anche al Gatto e alla Volpe. Al Gatto subentra una scimmietta servile di nome Spazzatura, la Volpe resta ma fa tutt’uno con Mangiafuoco, dirige un circo, organizza spettacoli che cantano le lodi del Mussolini e si chiama conte Volpe. Impossibile non pensare al conte Volpi che tenne a battesimo la mostra del cinema di Venezia, gioiello del regime. L’ingenuo Pinocchio, inconsapevolmente blasfemo, si interroga: «Perché amano un Cristo fatto di legno come me e non amano me?».

E poi arriva Mussolini

© 2022 Netflix, Inc.

Sovverte tutto, Guillermo Del Toro, e si concentra sullo showbusiness. Perché un burattino senza fili è più manovrabile, più ricattabile, di chi i fili ce l’ha. E perché è una star in potenza, una gallina delle uova d’oro da far ballare e cantare sul palco, col fucilino di legno, per la gloria del Duce, che la sfruttata creatura si ostina a chiamare Dulce. Per l’ultima tappa del tour, a Catania, è atteso Mussolini in persona. Arriva sulle note di Faccetta nera, nanerottolo dallo spropositato testone che devono prendere in braccio per farlo scendere dall’auto. Farà sparare a Pinocchio che l’ha deriso in scena, e sarà per il burattino l’ennesima morte e l’ennesima rinascita. Non è un bambino vero, non può morire: è la sua grande, preziosa risorsa. Proprio l’immortalità ne fa per il Fascio il soldato ideale, pronto per un campo di addestramento paramilitare riservato ai Balilla scelti.

Rivelare il finale sarebbe un tiro mancino, ma la sequenza thriller nella pancia del pescecane, in un mare livido cosparso di mine, è da togliere il fiato. Del Toro è un regista Oscar e un autore di culto, il suo Pinocchio ha un corredo di lusso, a partire dalle musiche di Alexandre Desplat e da un cast di voci che comprende Cate Blanchett (la scimmietta Spazzatura), Ewan McGregor (il Grillo Sebastian), Tilda Swinton ( Fata e Morte), Ron Perlman (il podestà), Christoph Waltz (il conte Volpe), John Turturro. Ma il compagno di bevute che cita come primo ispiratore del film ha un nome ancora più illustre. Era un tale di nome Gabriel García Márquez.

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