Un racconto di rinascita e riconoscimento, tra le strade di un’isola che diventa casa
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola.
Che ne dici?
È stato un caso. Sì.
Come tutto nella vita. Ci si incontra e ci si sposa, si cambia casa, si guarisce o ci si ammala.
Io sono diventata la tua postina.
Mica ci pensavo, e dire che mi chiamo Tina. Che altro lavoro mi poteva capitare in sorte?
E di un lavoro nemmeno mi preoccupavo, in quel periodo, ero presa da altre cose: la famiglia, e la salute. La salute che mi confinava in un posto lontano.
Il posto più lontano di ogni altro.
Da anni la mia testa era come il Palazzo d’Avalos, nella Terra Murata.
Avevo finito per pensare che fosse semplicemente la vita: la sofferenza ti viene a cercare e tu la scambi per il destino. Te la tieni, e vai avanti senza fargli nemmeno una domanda.
Io a quarantotto anni mi ero ritrovata così.
E se non fosse stato per Gianni, chissà. Magari ne sarebbero passati altri venti.
Altri venti lunghi anni senza sapere bene chi fossi.
In fondo, avrei potuto anche andare avanti per sempre, ignara.
Ero diventata moglie, e poi madre, avevo lottato per diventarlo, ero contenta di esserlo e adesso Luana frequentava il liceo a Napoli, era instradata. Il mio dovere l’avevo fatto. Aiutavo mia sorella al ristorante. Nessuno poteva dirmi niente.
Perché la gente ha da ridire, tu lo sai. Tu la conosci, la gente. La gente è convinta soprattutto di quello che non sa. E ama sbandierarlo. E così me ne stavo trincerata.
Finché Gianni non si è accorto che si apriva la domanda.
«Tina,» ha detto, «che ne dici?»
«La postina?»
La prova sarebbe iniziata il primo di aprile, e non era nemmeno uno scherzo. Era il destino, quello sì, che era il destino, ma ancora non lo sapevo. Ero ancora nella Terra Murata, io.
Ma un mese dopo quel giorno, il primo di maggio, sarebbe stato il mio compleanno. Di anni ne avrei compiuti quarantanove.
Sempre il primo.
La prova: primo aprile mille novecento novantanove. Duemila meno uno.
Uno, il numero da cui è partito tutto e quello in cui tutto è finito. Ma è finito bene.
La pensione, il primo aprile di questo anno duemila e venticinque. E il giorno più felice della mia seconda vita: il primo agosto duemila e cinque, quando sono diventata postina effettiva e nessuno me lo avrebbe potuto levare: era arrivato il contratto serio.
Uno. Una sei tu, Procida mia. Sei una ma sei tante, sei tu in ogni persona che ti abita.
E io questo, ho capito, nei miei anni di servizio per le tue strade. A piedi, con il sacco e la macchina (la mia!) parcheggiata in qualche slargo improbabile. Il tempo di consegnare fino al termine della via (e quante multe che ho preso!). E quando si è sganciato il freno a mano ed è slittata giù, per tutta la discesa di San Rocco, fino all’incrocio! Per fortuna una moto ferma ha arginato lo slancio, altrimenti chissà che guaio…
«Postina? Io?»
Ho domandato a Gianni con sgomento.
«Dici che me la cavo? Una donna, postina, e non so guidare neanche il motorino!»
I postini erano uomini. Perfino quello di quel bel film, quel film commuovente che ti ha reso famosa, era un po’ improbabile, un postino improvvisato, ma era pur sempre un uomo.
Mai tu, Procida, ne avevi avuta una femmina. Era un segno, ho pensato.
E però che lavoro. Una cosa forse di poco conto. Di cui non essere poi così orgogliosa.
Tu lo sai come mi avrebbe guardato la gente.
«Te la senti?» Mi ha chiesto mio marito.
Lui forse già sapeva che ero fatta per quel mestiere, che lo avrei amato, come nient’altro prima d’allora, a parte gli affetti. Che sarebbe stata la mia nuova vita, quando ormai pensavo che non avrei avuto più molto ad attendermi.
Lui ce l’aveva, forse, la visione, ma non me la voleva imporre.
«Me la sento,» ho detto.
Non lo so perché: non era vero.
Se io ti dicessi che quella notte, la notte prima della prova, non ho chiuso occhio?
Tanta era la paura.
In fondo non ti conoscevo ancora, e dire che ero nata e vissuta sempre qui.
Eppure non sapevo chi fossi, tu, isola mia, finché non mi hai salvata.
Sì, perché senza quel lavoro io non avrei scoperto chi ero davvero. Grazie agli altri, l’ho scoperto. Grazie a te.
Quel primo giorno, però, ancora non lo sapevo.
Mi hanno affidato a una signora che veniva da Napoli, si chiamava Antonella.
Era bella, svelta e tutto.
Siamo entrate in un bar a consegnare e la vergogna mi ha preso subito. Ma lei agiva disinvolta.
Ai primi palazzi mi sono affrettata su per le scale.
«Che fai, sali?» mi ha chiesto. «Se cadi, nessuno ti paga l’infortunio. Vuoi perdere il lavoro?»
Ho scosso la testa. Volevo perdere il lavoro che ancora non avevo? Non lo sapevo, ma dissi di no. Forse per orgoglio, forse perché qualcosa dentro di me aveva cominciato ad affacciarsi.
Quel giorno ho iniziato a pensare che postina in astratto non lo volevo diventare, ma forse postina come Antonella sì.
A quarantotto anni scoprivo un desiderio. Scoprivo un luogo dove la mente si acquietava, un luogo che era anche un tempo: per strada, tutta la giornata. Col sacco appresso. In salita e in discesa. Con l’affanno. Ma organizzata. Come a Corricella: prima un lato della strada, e il resto della posta a ristoro da un’amica, poi l’altro lato. Risparmiavo fatica.
Scoprivo, mano a mano, che la mia isola è chi la abita.
Chi mi veniva incontro con il cuore in gola per sapere se era arrivata, quella sospirata lettera.
Chi mi apriva la porta per offrire un po’ di fresco. Non lo potevo accettare, ero di corsa, ma non importava, era bello sentirselo offrire.
Chi mi seguiva per tutta Giovanni da Procida, a viale Cento, per insegnarmi chi era chi, cosa andava dove. Perché i nomi si somigliavano, quando non erano uguali: nonni e nipoti, fratelli e cugini, stesso cognome, perfino stesso nome. Sfido a non combinare guai.
Ah, alcuni li ho combinati.
E quando mi perdevo per le strade che non conoscevo, piangevo. In che guaio mi sono messa! Mi dicevo.
Ma sono caparbia. E ho iniziato a studiarle, le strade, tutte quelle mai sentite, che non sapevo neanche esistessero. Come non sapevo che esistesse quella Tina, che ci prendeva gusto ogni giorno di più.
Andavamo in motorino con Gianni, quando usciva dall’ufficio - stava alle Poste anche lui, ma era interno. E staccava alle due. Aveva un motorino Sfera verde metallizzato.
Prima, mi facevo fare due panini alla salumeria a Santoianno, all’angolo. Ero una donna che non cucinava al marito. Ma al marito non importava proprio, perché era Gianni. Se non fosse stato Gianni non l’avrei scelto. L’ho capito lì. Proprio in quel periodo.
Ci sedevamo al trentadue. Sempre al trentadue, sugli scalini, col panino. Per anni. Annusavo il profumo dei limoni che stavano poco lontano, oltre il muro.
Stanca, ma libera.
Poi partivamo in motorino, alla scoperta, fino anche alle sette di sera.
Le ho imparate, le vie, i vicoli, i viali. Ho memorizzato ogni cancello. E ogni volto.
A chiaiolella, pure le abitazioni dei forestieri, che venivano solo l’estate, senza una cassetta delle lettere. Si andava per conoscenza. E se uno non conosce non conosce. Ma c’è chi mi ha aiutato e io ho imparato. Ho imparato tutto. E dopo anni, fino all’ultimo, ho istruito i giovani postini che sono arrivati dopo di me.
Per ventidue anni non ho fatto altro che questo. Sentirmi utile. Tutto il giorno, fino al buio. Senza mai guardare l’orologio. Finché il sacco non era vuoto. Anche se pioveva, e le scalinate diventavano un fiume. E che facevo? La posta doveva arrivare.
Dare voce all’imbocco della via. «Maria, una raccomandata!», «Tonino un telegramma!»
Sembrano parole di poco conto. Lettera, raccomandata, telegramma. Ma quante storie, quanti segreti e notizie custodivano!
Basta guardare a questa, no? Questa lettera che sto scrivendo a te. Io che ho fatto del consegnare lettere la mia vita, non te ne avevo mai scritta una.
Ma come si dice: non è mai troppo tardi, giusto? Ogni cosa arriva al momento opportuno.
A parte i bollettini dei Santi. Quelli non arrivavano mai. Mi si riversavano tutti in ufficio a chiedere, a reclamare. Il giornale di Sant’Antonio, di Padre Pio, della Madonna dell’Arco. Gli abbonati avevano pagato, ma i Santi se la prendevano con comodo, il più delle volte. Per non parlare dei calendari di Frate Indovino. E io facevo ore di ricerche, per capire dov’erano finiti. Quanto mi hanno fatto penare questi santi ritardatari e imboscati!
Più di vent’anni senza sentirsi sola un giorno: tra i colleghi, che sono diventati amici. C’è sempre stato chi mi ha aiutato. E io non lo dimentico.
Procida, isola mia.
Da quando ho smesso di occuparmi nella tua posta, sono cominciati gli acciacchi.
Al mio corpo manca quel movimento, e forse ai miei occhi quei mille occhi in cui mi specchiavo ogni giorno.
Mi viene un pò di tristezza, a pensare a quanto sono stata felice per le tue strade. Mi ha guarita più di ogni medicina. Tutti mi hanno voluto bene.
Scusami se piango, Procida, isola mia.
È che a pensarci, mi commuovo ogni volta. Che vita sarebbe stata la mia, se non avessi risposto a quella domanda!
Ho scoperto il mestiere più bello del mondo. E in quello, me stessa.
Sono stata te, Procida. Sono te.
E continuo a esserlo, capiscimi, anche se non consegno più la posta. Anche ora, mentre mi riposo, e ci ripenso: a quanto è stato bello.
Io continuo e continuerò per sempre a essere questo,
La tua postina.
Questo racconto è stato scritto dall’11 al 15 giugno per «Procida Racconta», uno dei festival più amati d'Italia, giunto alla sua nona edizione, ideato e diretto da Chiara Gamberale.
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