Non c’è guerra che non registri il furto o la distruzione di opere d’arte. Non fa eccezione il conflitto tra Russia e Ucraina dei nostri giorni. Il 5 novembre è stata riportata su diversi giornali la notizia che un gruppo di militari russi, in abiti civili ma armati, ha saccheggiato il museo d’arte regionale Oleksiy Shovkunenko. In realtà il saccheggio del museo è iniziato il primo novembre, ma i presupposti perché ciò avvenisse rimandano al mese di luglio.

Il museo di Kherson

Come sono andate le cose lo racconta a Domani Alina Dotsenko, la direttrice del museo: «L’offensiva su Kherson ha avuto inizio il 24 febbraio. Vivo vicino al ponte Antonovsky e ho visto tutto con i miei occhi. I nostri soldati erano troppo pochi per poter resistere all’attacco. L’unico desiderio che avevo in quel momento era quello di arrivare a nuoto sotto il ponte per farlo saltare in aria».

Dotsenko ha lavorato per 45 anni al museo, e per 30 ne è stata la direttrice. «Quando gli occupanti sono entrati in città hanno iniziato a creare i loro posti di blocco. Gli operai che stavano lavorando alla ristrutturazione del museo sono subito fuggiti a Odessa, lasciando tutte le finestre aperte. Di notte, insieme ad altre lavoratrici del museo abbiamo chiuso le finestre come potevamo. Abbiamo fatto tutto da sole. Quando i russi hanno fatto irruzione nel museo hanno preso le chiavi di tutte le sale, ma non hanno trovato nulla di interessante: le sale erano vuote, perché prima dell’invasione, nel novembre 2021, quando sono iniziati i lavori di riparazione e restauro del museo, molte opere erano state imballate e spostate in un deposito. Quando mi hanno interrogata ho detto che la collezione era stata portata via».

Grazie a dei computer regalati al museo da sponsor inglesi – racconta Dotsenko – era stato possibile registrare tutte le informazioni relative alle opere in collezione: dipinti, sculture, oggetti di arte decorativa e applicata realizzati dal XVIII secolo ai nostri giorni. Quando i russi le hanno chiesto di collaborare, Dotsenko ha rifiutato e, riversati i dati su unità flash e dischi, ha cancellato tutta la documentazione dai computer. La notte del 5 maggio è scappata portando con sé la preziosa documentazione cucita dentro i vestiti. Dotsenko non sa dirci quante delle 14mila opere conservate nel museo sono state poi trovate e portate via dai russi. Ma il fatto che lei sia in possesso di tutta la documentazione sarà fondamentale per poterle rintracciare in futuro.

«Speravo che gli occupanti non scoprissero il valore della collezione», dice ancora Dotsenko: «Il 24 febbraio erano iniziati i bombardamenti della città e non avevamo potuto spostare più nulla sotto il fuoco costante dei russi. Le opere erano nascoste nei sotterranei del museo. All’inizio della guerra gli occupanti non sapevano esattamente dove fossero. Quando sono stata interrogata dall’amministrazione provvisoria degli occupanti ho testimoniato che l’intera collezione era stata evacuata prima della ristrutturazione. È stata Maryna Zhilina, la curatrice capo dei fondi del museo, che avevo licenziato un anno fa, a dare informazioni agli occupanti sul luogo dove erano nascoste le opere. Ha collaborato con loro anche il capo del dipartimento espositivo, Nataliya Koltsova. Così, il 19 luglio, alle undici, formazioni armate hanno fatto irruzione nel museo e sono andate a colpo sicuro nei sotterranei, dove hanno trovato le opere che avevamo nascosto. Lo stesso giorno i russi hanno nominato un nuovo direttore del museo. Abbiamo poi scoperto che Maryna Zhilina, quel mostro filo-russo, prima del licenziamento aveva fatto una copia illegale della documentazione delle opere. Questo è tradimento!».

Le razzie russe

Della razzia esistono documenti fotografici. «Molti patrioti rimasti a Kherson –  spiega Dotsenko – hanno filmato e scritto senza paura sui social delle opere rubate al nostro museo, che sono state caricate su cinque furgoni. Grazie alle foto e al racconto dei testimoni oculari sappiamo che per portare via le opere sono stati usati anche degli scuolabus. La chiamano “evacuazione”, ma questa è una vera e propria rapina. La storia ucraina conosce già molti esempi di come per i russi un’evacuazione temporanea si sia trasformata nella perdita di reperti di valore. È già accaduto durante la Seconda guerra mondiale, quando pezzi del patrimonio culturale furono portati dall’Ucraina in Unione Sovietica. I più preziosi non furono mai restituiti. Secondo la versione ufficiale sovietica, il treno che doveva portare in salvo le opere fu preso di mira dai nazisti e distrutto. Tra le opere dichiarate disperse nel bombardamento c’era una campana del XVIII secolo in cui era raffigurato a rilievo il generale Ivan Mazepa. Poi, negli anni, questa campana è apparsa in una delle chiese russe di Orenburg. Alcune delle opere appena trafugate sono state adesso viste in Crimea, a Sinferòpoli. Quale destino attende la collezione che i russi hanno portato via da Kherson? Non lo so, di certo so che continueremo a essere derubati».

Le razzie vanno ben oltre quanto è accaduto al Museo Shovkunenko. Ai russi non è stato difficile portare via le antiche icone dalle chiese o da qualsiasi altro posto. «Non è la prima volta che le icone ucraine finiscono in Russia», dice a Domani Roksolana Kosiv, capo del dipartimento di arte sacra dell'Accademia nazionale delle arti di Leopoli e ricercatrice senior del Museo Nazionale della città. «Molte delle nostre icone sono state portate fuori Kiev in diverse circostanze e oggi appartengono alle collezioni di vari musei russi, principalmente alla Galleria Tret’jakov, a Mosca. Parecchie di queste sono catalogate ed esposte come icone russe». E, a rimarcare come l’Ucraina sia stata ripetutamente defraudata dei suoi beni, aggiunge: «Lo sviluppo della pittura di icone in Ucraina risale all’XI secolo, quando a Kiev sorsero diverse chiese, tra cui la Cattedrale di Santa Sofia, costruita e decorata da maestri venuti da Bisanzio. Questi primi pittori di icone hanno fatto scuola ai maestri locali. Quando a Kiev la Chiesa dell’Arcangelo Michele fu distrutta dai bolscevichi, nel 1935, frammenti dei suoi mosaici e affreschi furono frettolosamente rimossi da specialisti ucraini per salvarli. Ma poco dopo furono trasportati in Russia».

Delle recenti razzie non si hanno molte notizie sia perché avvengono in territori occupati, sia perché gli stessi ucraini hanno paura a dare informazioni sul valore delle opere sottratte. Il rapimento dei direttori o del personale dei musei ha proprio lo scopo di carpire informazioni sulle opere, sui luoghi dove sono nascoste, sul loro valore. «Si pensi all’Unione Sovietica», ci dice Ustina Soroca, designer e docente di Storia della ceramica all’Istituto d’arte di Kherson,  «i russi sono riusciti a rubare da tutti i musei. In Lituania, Lettonia, Estonia, Moldova, Georgia, e così via. Il Ministero della cultura qui da noi aveva invitato la popolazione a non dare notizie che avessero potuto consentire ai russi di individuare opere d’arte di interesse nazionale perché state sarebbero immediatamente requisite. I fatti dimostrano che avevano visto giusto».

Furti simbolici 

Sempre a Kherson, da una cripta nella cattedrale di Santa Caterina sono state trafugate le ossa di Grigory Potemkin, uno dei numerosi amanti di Caterina la Grande, di cui rimase sempre amico. Nel caso di questa razzia la refurtiva non ha un valore materiale, ma puramente simbolico. Non è come portare via un quadro o una scultura, o degli ori. A Potemkin viene riconosciuto di aver dato un forte contributo all’annessione pacifica della Crimea alla Russia, nel 1783, e di aver anche avuto un ruolo fondamentale nella vittoria del conflitto con l’impero ottomano (1787-1792). Portare i suoi resti in Russia significa rimarcare l’appartenenza della Crimea e più in generale dell’Ucraina alla Russia. Un concetto ribadito di recente dall’apertura al pubblico della mostra multimediale Russia – La mia storia. Gli anni 1945-2016, nel piano nobile del Maneggio di Mosca, promossa, come le tre dello stesso genere che l’hanno preceduta, dal Consiglio Patriarcale per la Cultura.

La propaganda

Inauguratasi il 4 novembre alla presenza di Putin e del patriarca Kirill, oltre che di numerose autorità politiche e religiose, la mostra è stata illustrata agli ospiti dal vescovo Tikhon di Egorevsk, presidente del Consiglio patriarcale per la cultura. Uno degli intenti dell’iniziativa, che si avvale di pannelli interattivi, immagini, documenti, mappe e filmati di cinegiornali, è dimostrare che l’Ucraina è incontestabilmente parte integrante della Russia. A testimonianza che quella contro Ucraina è per i russi una sorta di guerra santa, nella sala centrale del Maneggio è stata esposta una copia dell’icona della Madre di Dio di Vladimir e Putin e il primate della chiesa ortodossa russa hanno acceso candele dinanzi all’immagine della Vergine. Il patriarca Kirill ha poi scritto una frase sul libro degli ospiti d’onore: «Dopo le nuvole le stelle! Le nubi via via scompaiono, e le stelle sono più luminose. Che Dio benedica il cammino del nostro popolo».

La ritualità messa in scena al Maneggio di Mosca dinanzi all’icona di Vladimir ha un forte impatto propagandistico proprio per la storia di questa icona, il cui originale è conservato alla Galleria Tret’jakov di Mosca. Considerata già un’immagine miracolosa, l’icona bizantina della Madre di Dio giunse a Kiev intorno al 1130 da Costantinopoli, dove rimase fino al 1155, quando fu portata nella città di Vladimir e accolta nella cattedrale della Dormizione. Fu poi inviata a Mosca per proteggere la città durante l’invasione mongola e, dopo che i nemici si ritirarono, rimase lì e le si attribuisce il merito di aver protetto il popolo russo in più occasioni. Dopo la rivoluzione del 1917 l’icona fu spostata alla Galleria Tret’jakov in modo che non fosse più considerata oggetto di venerazione, ma solo un’opera d’arte. A lei però pare si sia affidato anche l’ateo e persecutore della fede Stalin quando, durante la Seconda guerra mondiale, le fece sorvolare a bordo di un aereo militare la città di Leningrado assediata dai tedeschi. Anche in questo caso si attribuì alla sacra icona un ruolo di protettrice del popolo russo.

Per i russi le opere trafugate in Ucraina non sono l’equivalente dei furti operati dai tedeschi in Italia o in Francia. Convinti che non ci sia nulla in Ucraina che non appartenga alla Madre Russia, spostare a Mosca o a San Pietroburgo le opere del museo Shovkunenko di Kherson, che peraltro è una delle zone contese identificate come filorusse, equivale per i russi a tornare in possesso di un proprio patrimonio.

Una storia lunga

In a Saturday, Feb. 8, 2014 photo, a visitor to the Fred Jones Jr. Museum of Art at the University of Oklahoma in Norman, Okla., takes a photograph of a piece called “Shepherdess Bringing in Sheep” by French impressionist artist Camille Pissarro at the museum. For more than a decade, the University of Oklahoma has exhibited “Shepherdess Bringing in Sheep,” bequeathed to it by the wife of an oil tycoon. But renewed claims by a family that owned the oil painting before World War II has drawn the school’s fundraising arm into a fight it thought was settled in Switzerland more than 60 years ago. (AP Photo/Sue Ogrocki)

La storia si ripete, dunque: consci del fatto che sono le testimonianze culturali a rendere grande un paese – Napoleone insegna! – gli invasori fanno incetta di opere d’arte e manufatti preziosi. Nel corso del secondo conflitto mondiale i tedeschi hanno ripetutamente e programmaticamente saccheggiato i musei dei paesi invasi. Una volta al potere, Hitler aveva dato incarico a diversi studiosi di fare un censimento in Europa di quadri, sculture, gioielli, reperti archeologici e quanto meritasse un posto nella storia dell’arte. Una volta invasa l’Europa, questi inventari avrebbero facilitato il compito delle SS di trasferire in Germania opere e oggetti per dare vita alla più grande raccolta d’arte del mondo.

Il furto di opere d’arte non è stato tuttavia un’esclusiva dei tedeschi tanto che ancora oggi sono aperti contenziosi tra le nazioni.  Nel 1993 la Russia ammise di aver portato in patria molti capolavori e oggetti d’arte sottratti alla Germania dopo la sua resa nel secondo conflitto mondiale. Il 5 febbraio 1997 la Duma varò a stragrande maggioranza una legge nella quale si attestava che tutte le opere giunte in Unione Sovietica alla fine del secondo conflitto mondiale erano da considerare di proprietà dello stato federale. Nell’ottica dei russi queste opere costituivano un risarcimento dei danni di guerra e andavano considerate di loro proprietà, indipendentemente dalle circostanze in cui erano state acquisite e dai proprietari originari.

Curiosamente, mentre molte opere d’arte non erano state ancora restituite dalla Germania ai legittimi proprietari, il 21 giugno 2013 Angela Merkel trovò opportuno declinare l’invito del presidente russo Vladimir Putin a partecipare all’inaugurazione di una mostra al museo dell’Ermitage, a San Pietroburgo, nella quale erano incluse oltre seicento opere d’arte requisite dall’Armata Rossa in Germania alla fine della Seconda guerra mondiale. In quell’occasione il portavoce del governo tedesco Georg Streiter ribadì che, in base al diritto internazionale, quelle opere sarebbero dovute tornare in Germania. Evidentemente le norme giuridiche internazionali alle quali i tedeschi si appellavano assumevano rigore categorico per i capolavori sottratti alla Germania e valore discrezionale per le opere sottratte dalla Germania all’Italia, alla Francia e ad altri paesi europei, di molte delle quali si sono perse le tracce.

Battaglie legali

Con il passare degli anni tuttavia qualche risultato si è ottenuto. Nel 2000, per esempio, è stato concordato uno scambio tra Germania e Russia. Mosca ha restituito 101 opere sottratte al museo di Brema (tra cui lavori di Dürer, Goya e Toulouse-Lautrec) mentre la Germania ha ridato frammenti di un mosaico della residenza estiva degli zar a Tsarskoye Selo, portati via nel 1941.

Anche in Italia non mancano ancora oggi battaglie legali per la restituzione di opere d’arte trafugate dai tedeschi. Nel 2019 Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi, è riuscito a far restituire al nostro paese il pregevole Vaso di Fiori dell’olandese Jan van Huysum, sottratto da un caporalmaggiore dell’esercito tedesco e inviato in Germania nel 1944, opera della quale non si seppe più nulla fino alla caduta del muro di Berlino, nel 1989. Con non poche difficoltà Schmidt è riuscito a far tornare il dipinto alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti, dove era giunto nel 1824, acquistato dal granduca di Toscana, Leopoldo II.

Non possiamo sapere quale sarà il destino delle opere trafugate in Ucraina. Nonostante ci siano persone che stanno facendo di tutto per mettere in salvo il patrimonio, il recupero delle opere già sottratte, come la storia insegna, sarà un percorso lungo e faticoso. Dotsenko, la direttrice del museo di Kherson, non ha dubbi: «Dovremo avviare delle cause giudiziarie. Dobbiamo prepararci per ottenere la restituzione delle opere. È auspicabile che la comunità mondiale voglia unirsi alle nostre richieste. La nostra collezione sarà smembrata e sarà difficile sapere dove andranno a finire le tante opere del museo, ospitate in uno spazio di 3.000 metri quadrati. Si dovrebbe celebrare un grande processo internazionale contro la Russia».

Questo articolo è stato realizzato con la collaborazione di Ustina Soroca e di Marco Gallipoli

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