Oltre cento giorni di guerra russa in Ucraina hanno non solo mutato gli equilibri geopolitici mondiali, ma anche plasmato la chiesa ortodossa russa, sempre più concepita dal patriarca di Mosca Kirill come una macchina politico-religiosa al servizio di Vladimir Putin. Alle trincee e ai bombardamenti autorizzati dalla Duma, infatti, si giustappone una chiesa che, presentandosi come un faro contro la demoralizzazione occidentale, è sempre più isolata e lacerata internamente. Ne abbiamo parlato con don Stefano Caprio, docente di Storia e cultura russa al Pontificio istituto orientale di Roma, profondo conoscitore delle dinamiche del mondo ortodosso.

Don Stefano, i riferimenti del patriarca Kirill alla guerra metafisica contro l’occidente e i suoi recenti incontri con i parlamentari e i gerarchi della chiesa, mostrano una coincidenza con le motivazioni belliche di Putin. Perché?

L’indubbia giustificazione religiosa della guerra è un richiamo alle ragioni storiche della Russia, oggi chiamata a difendere la vera fede, come un tempo. Si tratta di una vocazione legata all’ideologia sovietica, che voleva portare nel mondo la giustizia del comunismo. Questi due aspetti, all’apparenza contrastanti, si possono unire nelle persone di Putin e Kirill che, ripulendo l’ideologia sovietica della parte ateista e totalitarista, propagandano oggi il concetto del Russkij Mir (il mondo russo, ndr) rifacendosi a quella scuola politica di matrice staliniana con la chiesa di Mosca che detta la linea e le motivazioni.

All’ideale del Russkij Mir che risale all’elezione del patriarcato sotto Stalin (1945), oggi la chiesa di Mosca guidata da Kirill si basa anche sul concetto bizantino di symphonia. Questa nuova intesa tra chiesa e stato rappresenta un punto di non-ritorno?

Il modello della symphonia, che è diverso da quello di teocrazia – tipico dei governi islamici – e di separazione – proprio degli stati occidentali –, consiste in un costante bilanciamento tra lo stato, che deve difendere gli ideali cristiani dal punto di vista storico, politico e militare, e la chiesa che li alimenta dal punto di vista religioso, spirituale e pastorale. Nel ventennio di governo putiniano, all’inizio ha prevalso la chiesa che ispirava l’ideologia post-sovietica con la sua dottrina. In seguito, Putin ha preso il controllo della chiesa, dandole un primato su tutte le altre. Per questo, i continui richiami di Putin alla de-nazificazione sono un’implicita accusa ai greco-cattolici di Kiev. Stepan Bandera, nazionalista tacciato di filo-nazismo, era figlio di un sacerdote greco-cattolico. Oggi, quindi, dietro le accuse del Cremlino agli ucraini nazisti, ci sono quei greco-cattolici che ispirarono la rivoluzione di Maidan nel 2014, che per Putin rappresentano l’occidente invasore.

In un’ottica di riconquista dei territori ucraini, quanto è importante per Putin una salda alleanza con Kirill, che fa coincidere la fede con un’etica personale e l’ethos collettivo?

Putin non può farne a meno. La maggior parte dei preti ortodossi russi è ucraina perché l’Ucraina è la terra che alimenta l’autentica religiosità della chiesa russa. Formalmente, in Russia si contano circa 80 milioni di ortodossi: di costoro, va in chiesa il 5 per cento, circa 3-4 milioni di fedeli. Su 30 milioni di ortodossi ucraini, invece, frequentano la chiesa circa 15 milioni, il 50 per cento: sono il triplo di tutti i fedeli ortodossi russi. Oggi, nelle zone occupate nel Donbass e nella Crimea, gli ortodossi locali hanno dichiarato fedeltà a Mosca, ma in tutto il resto del paese, anche gli ortodossi legati al patriarcato hanno strappato legami che non sarà facile ricucire.

Nella chiesa ortodossa russa è, invece, aumentato il malcontento verso la radicalizzazione del patriarca Kirill?

Il caso più clamoroso è quello di Hilarion (ex metropolita, presidente del dipartimento Relazioni esterne della chiesa ortodossa russa, de-mansionato da Kirill ad amministratore della metropoli di Budapest-Ungheria, ndr). Il fatto, di per sé, non è eclatante, perché Kirill è abituato a spostare i suoi collaboratori in modo repentino, fa parte delle dinamiche di equilibrio interno del patriarcato: Hilarion era troppo indipendente e, sebbene non abbia mai fatto dichiarazioni esplicite contro la guerra, ha espresso il suo favore per il dialogo con le altre chiese. Dava l’impressione di essere su un’altra linea ed era un riferimento per quegli ortodossi che in Russia non appoggiano la guerra. Il patriarca di Mosca lo ha voluto, così, allontanare, sostituendolo con Antonij, che al suo primo intervento ufficiale ha dichiarato che “la priorità della chiesa di Mosca sono le sfide geopolitiche internazionali”. In Russia, c’è disaccordo, ma ogni forma di dissenso oggi è repressa con dimissioni o arresti, le cosiddette purghe putiniane. Di recente, è stato espulso da Mosca un prete dell’Opus Dei per aver espresso dubbi sulla guerra durante un incontro privato con i parrocchiani. Chi può va via, mentre sulle chiese russe all’estero c’è lo stesso controllo che avviene in patria. Ma oggi Kirill è in isolamento, e gli stessi ortodossi ucraini si stanno ricompattando intorno a un ideale nazionale ravvivato proprio dall’invasione russa. Si tratta di circa il 40 per cento delle chiese fedeli al patriarcato di Mosca: una divisione che non so come si potrà ricomporre.

Sfumato il progetto dell’«unico popolo sulle sante montagne di Kiev» come disse il cardinale Lubomir Husar, oggi la Santa sede può ancora tenere un canale aperto?

Con papa Francesco c’è stato senza dubbio un disgelo dopo anni di accuse di proselitismo dei greco-cattolici da parte di Mosca. Io stesso venni espulso con altri missionari nel 2002, dopo anni di collaborazione con loro. Ai tempi dell’Unione sovietica, l’ostpolitik funzionò bene, ma oggi Francesco ha dalla sua una nota di antiamericanismo tipica del contesto latinoamericano, e continua a cercare spiragli aperti. Ancora oggi, quando papa Francesco, parlando della guerra, menziona l’abbaiare della Nato, offre una sponda ai russi, come già accaduto a La Havana nel 2016. In quella dichiarazione congiunta con il patriarca Kirill, si parlava dell’intervento in Siria, ma non c’era stata alcuna condanna dei russi che avevano iniziato la guerra in Donbass e s’erano annessi la Crimea: il papa disse solo che gli ucraini dovevano imparare ad andare d’accordo tra di loro. Non parlò dei russi invasori. Questo piacque ai russi e fece arrabbiare gli ucraini. Però per adesso non si vede come si possa ricostruire veramente il rapporto, visto che Francesco continua a condannare fortemente la guerra e appoggia gli ucraini.

Dopo l’incontro mancato a Gerusalemme, c’è molta aspettativa su quello di settembre tra Francesco e Kirill al Congresso dei leader delle religioni mondiali in Kazakhstan. Cosa c’è da aspettarsi?

Il Kazakhstan è un paese legato alla Russia, ma con delle prospettive in divenire. È sì erede di una storia sovietica ma, come tutti i paesi dell’area centrale, è a maggioranza musulmana. Anche la sua tradizione legata al dialogo interreligioso è un’eredità dei tempi sovietici, cioè delle chiese che collaboravano con lo stato. Il presidente Tokayev cerca di proseguire la linea ma, a differenza del vecchio presidente Nursultan Nazarbayev, ha accenti anti-russi. Ha fatto di recente scalpore la sua visita a San Pietroburgo dove, incontrando Putin, gli ha negato il riconoscimento dell’annessione di Crimea e Donbass. In tale contesto, anche le prospettive di un dialogo tra il papa e il patriarca sono legate agli esiti della guerra. Se a settembre il conflitto si sarà sbloccato, Francesco potrà chiedere a Kirill di costruire una via verso la riconciliazione. In caso contrario, non credo che l’incontro ci sarà. Per di più, il papa ha annunciato la sua partecipazione in anticipo perché è interessato a partecipare al dialogo con le religioni dell’Asia, non solo per la Russia.

In questo senso, la cronicizzazione della guerra scatenata dalla Russia potrà ostacolare il cammino della Santa sede in oriente, in particolare in Cina?

Influirà molto, perché la geopolitica ha conseguenze importanti anche sulle relazioni religiose. La Santa sede ha a cuore il suo cammino in Asia. Non a caso, fra i cardinali che il papa creerà il prossimo agosto c’è anche un missionario della Mongolia (il cuneese mons. Giorgio Marengo, 47 anni, prefetto apostolico di Ulan Bator dal 2020, ndr), un paese dove i cattolici sono 1.500. Sono tutti tentativi di riprendere un dialogo. Sta tutto nel vedere se la Cina, con la fine della guerra in Russia, prenderà posizioni più rigide. Il filo del Vaticano con la Russia oggi è divenuto molto sottile.

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