Colpa probabilmente di La zona di Interesse (The Zone of Interest in originale), algido gioiellino di Jonathan Glazer che a Cannes meritava la Palma d’oro ma ha avuto “solo” il Grand Prix di Jury, se le letture oblique del nazismo in questo momento esercitano, non solo su di me, una seduzione speciale.

Martin Amis, autore del celebre romanzo omonimo, è morto solo un paio di giorni dopo la proiezione in concorso del film, ma oso dire, a rischio scomunica, che la trasposizione su schermo è perfino più intrigante della pagina scritta. Stilizzati e prosciugati da Glazer, questi dirimpettai borghesi di Auschwitz che concimano aiuole rigogliose con le ceneri dei forni crematori grazie ai benefits del capofamiglia-manager dello sterminio seriale offrono uno sguardo sghembo sull’orrore che esula dalla narrazione consueta.

Il film arriverà in Italia solo nel 2024, distribuito da I Wonder Pictures, ma l’algoritmo efficiente di Netflix si è sintonizzato per tempo, piazzando in rete Eldorado: Il night club odiato dai nazisti. È un documentario, ma il termine ha sforato da un pezzo i vecchi parametri di nicchia. Quando parlo di lettura obliqua mi riferisco a una chiave di racconto circoscritta ma capace di offrire una prospettiva inedita sull’insieme.

La chiave di Benjamin Cantu, che scrive e dirige il filmato, è dichiaratamente lgbtq+ e analizza in parallelo l’ascesa del nazionalsocialismo e la repressione politica affidata al famigerato Paragrafo 175 del codice penale che bollava come crimine la fornicazione tra uomini. Per inciso, la Germania ovest mantenne la norma nazista fino al 1969 e la abrogò soltanto nel 1994, dopo l’unificazione tedesca. Ma è l’intreccio strettissimo con le vicende personali della nomenklatura hitleriana a catturare.

Berlino città aperta

Il night Eldorado, culla di libertà per la comunità queer nella Berlino ruggente degli anni Venti, è, diciamo così, una sineddoche. L’arcipelago gay, lesbo e trans dell’ epoca  poteva contare infatti su una rete fitta di luoghi di aggregazione e di pubblicazioni periodiche specializzate, calibrate sui gender. L’ Eldorado però ha una particolarità. Sotto la promessa di libertà contenuta nell’insegna (“Qui è giusto”), tra lustrini, paillettes e drag queen si incontrano e incrociano tre figure e tre percorsi di vita diversamente clamorosi.

Ernst Rohm, colonnello generale delle camicie brune (le Sa), è il braccio destro di Adolf Hitler. Ferocemente antisemita, è un omosessuale sfrontato, in barba al machismo ostentato della sua manovalanza criminale in continua espansione: come patente di virilità basta il lavoro sporco, ovvero pestare a sangue ebrei e comunisti.

Magnus Hirschfeld, illustre sessuologo ebreo ed esponente del primo movimento omosessuale, vedrà ben presto devastare dalla gioventù hitleriana l’Istituto in cui praticava i primi interventi sperimentali di “riassegnazione di genere”. I suoi libri e le attrezzature mediche finiranno sui roghi. Hirschfeld, per pura fortuna in trasferta, morirà esule in Francia.

Il barone Gottfried Von Kramm, legato a un giovane ebreo ma protetto dal ceto e dal suo status di star germanica del tennis, verrà arrestato dopo la sconfitta storica sul campo di Wimbledon per la Coppa Davis del 1937. L’arresto scatta all’indomani della storica Notte dei Cristalli, sanzione della persecuzione antisemita: non solo è reo di violazione del Paragrafo 175, ma di atti sessuali con un “giudeo”. Peggio: l’aristocratico ha sistematicamente rifiutato di iscriversi al partito nazionalsocialista e di approvare pubblicamente la deriva del Terzo Reich. Le vite di questi tre uomini sono un termometro. Scandiscono la progressiva soppressione di ogni traccia di libertà. Denunciano lo sfruttamento politico di una tolleranza di facciata che può dissolversi secondo l’ora e le convenienze.

Camicie brune e gay

La parabola dell’onnipotente Ernst Rohm, tra tutte, è la più illuminante. Il capo delle Sa è un intoccabile, o almeno tale si sente. Può permettersi il lusso di scrivere, nelle lettere agli amici: «Per me le donne sono ripugnanti». Il corpo delle neonate Ss, affidato a Heinrich Himmler, ha un peso più marginale. Il primo passo di Himmler contro il  potente avversario è la trasformazione delle Ss in organizzazione elitaria, riservata ad ariani biondi e con gli occhi azzurri.

Quando i socialdemocratici fanno campagna elettorale contro il nazionalsocialismo denunciando a colpi di titoli e di vignette l’omosessualità di Rohm, fanno un buco nell’acqua. Adolf Hitler fa il pieno di voti: 17 milioni. La nostra modesta storia italica offre svariati esempi consimili. Il 30 gennaio del 1933, con Hitler eletto cancelliere, fa da spartiacque su molti fronti. L’Eldorado viene chiuso, ma anche per il suo habitué in carriera l’orizzonte si offusca. Per zittire i malevoli Rohm fa sposare con una donna il suo pupillo (e altro) Karl Ernst, con smisurata pompa mediatica e con Hermann Goring come testimone di nozze. È l’apogeo delle camicie brune. 

La contromossa di Himmler, che lavora di fino e non di grancassa, sarà accusare l’avversario di cospirare contro il Führer per rimpiazzarlo. Quando fanno irruzione nella sua stanza d’albergo in Baviera, in beata vacanza “di stato” con altri gerarchi, Rohm rifiuta la pistola che gli offrono per suicidarsi. «Deve spararmi Hitler in persona», dichiara. Provvederanno invece alla bisogna due oscuri ufficiali delle Ss.

È un risvolto singolare della storia del Reich, quello legato all’omosessualità: Himmler diventa il leader di una nuova guerra contro la perversione «che mina lo stato fino alle fondamenta». Le Liste Rosa delle persone sospettate di omosessualità, compilate da anni pro forma dalla polizia, diventano pane per la Gestapo. Non che scatti per loro lo sterminio di massa, non è questo l’intento. Ma gli omosessuali, maschi e femmine, morti nei lager sono, da stime, tra i 10 e i 15mila: cavie ottimali per gli esperimenti medici, costretti a indossare un triangolo rosa come segno d’infamia, detenuti in regime di speciale abiezione e sottoposti a castrazione dietro promesse di rilascio ovviamente mai mantenute. 

Sguardi sghembi

In margine, è singolare che il barone tennista, Gottfried Von Kramm, abbia tentato invano nella Germania post-nazista degli anni  Cinquanta di far cancellare dalla propria fedina penale la condanna in base al Paragrafo 175. Nella civile Gran Bretagna del resto, faro dell’anti-nazismo, un genio chiave della vittoria su Hitler come Alan Turing fu costretto al suicidio dai trattamenti di castrazione chimica impostigli dal governo britannico. Il che conduce a un altro capitoletto di storia obliqua.

Lo proponeva Benjamín Labatut nel suo intrigante Quando abbiamo smesso di capire il mondo, pubblicato da Adelphi un paio d’anni fa. Il Terzo Reich è di scena anche qui, in forma di indagine sulle metanfetamine fornite alle truppe come parte della razione. Della tossicodipendenza da Pervitin parla anche Heinrich Boll nelle sue lettere a casa dal fronte, tra il 1939 e il 1940: «Se potete, mandatemi altro Pervitin, per favore». E il cianuro, altra sostanza-chiave: il 12 aprile 1945, prima della resa di Berlino, al termine dell’ultimo concerto della Filarmonica, i membri dello Stato Maggiore nazionalsocialista furono omaggiati dai frugoletti della Deutsches Jungvolk che distribuivano capsule di cianuro da graziosi cestini di vimini. L’epopea del cianuro e delle sue origini dal blu di Prussia, primo pigmento sintetico moderno, è una discreta lettura.

Non salto di palo in frasca se mi auguro che Alan Arkin, morto il 29 giugno, non venga ricordato solo come brillante comprimario tv de Il metodo Kominsky. La sua prima regia, Piccoli omicidi, del 1971, è un fulgido esempio di sguardo obliquo sui veleni civili del secondo emendamento, il cancro delle armi libere che è la vera metastasi della storia americana. Un film capitale.

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