Cosa c’è davvero dietro i cibi economici che troviamo ogni giorno nei supermercati, nelle mense e nei surgelati?
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
In fondo a uno scaffale, tra le promozioni settimanali e i cartelli fluorescenti, c'è sempre una lattina di tonno a 1,69 euro. Tre scatolette, tutte insieme a meno di sei euro. Poco più in là, è facile trovare un petto di pollo sottovuoto a 3,99 al chilo, pronto da cuocere, senza pelle, senza ossa, senza storia.
Nel banco dei surgelati molto spesso si possono incontrare i bastoncini di pesce con la panatura croccante, in offerta. Le polpette della mensa scolastica, i nuggets industriali da microonde, le crocchette da discount. Proteine, dicono. Proteine complete. Un pasto equilibrato. Una fonte di energia. Eppure, qualcosa non torna.
C'è una sproporzione tra il valore che assegniamo alla carne e al pesce e il prezzo con cui li acquistiamo. C'è una distanza abissale tra la vita che ha generato quella proteina e il gesto distratto con cui la mettiamo nel carrello. Sono proteine, sì. Ma che tipo di carne, che tipo di pesce, che tipo di lavoro, che tipo di filiera, che tipo di vita ci sono dietro quei prezzi? Quali mari, quali stalle, quali mani? Chi ha pescato, allevato, lavorato, trasportato? E quanto ha guadagnato?
Pasti invisibili
La domanda vera è questa: dove nascono, davvero, le proteine low cost? E dove finiscono? Non nelle tavole imbandite dei gourmet, non nei ristoranti con le stelle, non nei taglieri fotografati per Instagram. Quelle proteine entrano in catene silenziose, in piatti che nessuno celebra: nei menù scolastici e ospedalieri, nei pasti di chi lavora a turni, nei container del cibo per animali. Si fanno invisibili. Eppure pesano, e non poco: sulle economie locali, sulle condizioni di lavoro, sull’ambiente, sulla salute. Perché quando una fettina costa poco, qualcun altro – altrove – ha pagato il prezzo.
Nel Nord del Brasile, lungo il fiume Madeira, decine di cooperative di pesca lavorano per l’export europeo. I filetti di tilapia arrivano anche da qui: allevamenti intensivi, lavorazione veloce, nessuna tracciabilità. Il pesce che finirà impanato e pastorizzato nella mensa di una scuola italiana ha nuotato in vasche sovraffollate, nutrito con farine di soia transgenica coltivata in terreni strappati alla foresta. Non è solo un tema ecologico. È un gioco a incastri dove l’abbassamento del prezzo finale si costruisce sullo sfruttamento: ambientale, umano, animale.
Le proteine low cost sono figlie di filiere lunghe, spesso opache, dove ogni passaggio è una sottrazione: di dignità, di nutrizione, di diritti. Il pollo che finisce in una vaschetta di nuggets da discount può aver attraversato mezza Europa prima di essere impastato, pressato, impanato, imbustato. Un macello in Polonia, una lavorazione in Belgio, un surgelamento in Olanda. Oppure, nel caso dei tagli più scadenti, in Thailandia o Vietnam. Dove il lavoro è più flessibile, cioè meno pagato. Dove le norme igienico-sanitarie sono meno stringenti. Dove l’etichetta “filiera controllata” è solo una traduzione di comodo.
Euro tolti
Anche in Italia, il tema riguarda più di quanto si voglia ammettere. La carne macinata che finisce in migliaia di pasti pronti, nelle mense aziendali o nei banchi take away dei supermercati, è spesso un prodotto di seconda o terza fascia. Non necessariamente pericoloso, sia chiaro, ma standardizzato all’eccesso, privo di identità, frutto di allevamenti intensivi dove gli animali, quasi sempre, non hanno mai visto il sole. Ogni euro risparmiato su quella carne è un euro tolto a qualcuno: all’allevatore, al lavoratore, alla qualità dell’ambiente.
La Grande distribuzione organizzata ha costruito su questo principio interi modelli di business: spingere il prezzo al ribasso per attrarre volumi, compensare con logiche promozionali aggressive, comprimere il margine a monte. E nella logica 3x2 svaniscono anche i diritti di chi produce. Così, si arriva alla carne come leva di marketing: ogni volantino del supermercato ha un pollo da pubblicizzare, ogni banco frigo una promessa illusoria di sazietà a basso costo.
Sullo sfondo, resta la retorica del “100 per cento italiano”, brandizzata, nazionalizzata, appiccicata a ogni confezione. Ma cosa vuol dire davvero? Basta che un animale venga macellato in Italia, anche se allevato altrove, per diventare magicamente tricolore. Le proteine low cost indossano una bandiera che non racconta nulla della loro storia, ma solo della loro destinazione. Non c’è trasparenza, c’è rassicurazione. Non informazione, ma marketing patriottico.
Pet food e surgelati
E poi c'è il settore più trascurato, ma più esplicito: il pet food. Le crocchette da 9 euro per 15 chili, vendute nei centri commerciali, raccontano senza pudore dove vanno a finire gli scarti di una filiera zootecnica globalizzata. Farine di carne e ossa, sottoprodotti della macellazione, residui trattati e processati fino a diventare pellet proteico. Nessun consumatore mangerebbe ciò che serve al suo cane o al suo gatto. Ma quella proteina è carne, sulla carta. Una carne che ha perso tutto, tranne il suo valore proteico.
Anche l’industria del surgelato gioca la sua parte. Dietro la promessa della “comodità”, si nasconde spesso la standardizzazione spinta all’eccesso. Piatti pronti a base di pollo, sughi di pesce, burger misti, impanati ripieni: ogni grammo di proteina è stato riformulato, alterato, camuffato per garantire costi bassi, lunga conservazione e gusto neutro. È la logica del compromesso permanente, dove il valore nutrizionale diventa una voce secondaria.
Negli ultimissimi anni, poi, la parola “proteine” è diventata uno strumento di marketing a tutti gli effetti. Yogurt proteici, merendine proteiche, bevande proteiche, gelati con 20 grammi di proteine per vaschetta. Qualsiasi prodotto alimentare, persino quelli carichi di edulcoranti, aromi e grassi industriali, viene rilanciato con un claim proteico in etichetta. Perché funziona: il pubblico associa “più proteine” a “più sano”, lo collega all’immaginario del corpo scolpito, del fitness, della performance.
Il paradosso è che questo tipo di proteine alimenta spesso chi ha più bisogno di nutrizione buona. Nelle scuole, negli ospedali, nei centri per anziani, la voce "cibo" è una delle prime a essere tagliata. I bandi pubblici premiano il ribasso, non la qualità. Così, chi dovrebbe mangiare meglio per diritto finisce per mangiare peggio per sistema. Un piatto di carne che costa poco non è mai un miracolo: è la somma di una catena che ha tolto valore a ogni passaggio.
Le proteine low cost non scompaiono. Si spostano. Si accumulano dove il cibo non è un piacere, ma una necessità. Dove l’etica può aspettare, e la fame no. Dove ci si nutre per vivere, non per scegliere. Dove chi mangia non è considerato un cittadino da rispettare, ma un costo da abbattere.
In fondo, il sistema lo conosciamo bene, lo abbiamo accettato perché sembrava conveniente. Ma se tutti iniziassimo a farci delle domande e pretendere delle risposte prima di acquistare cibo, questo stesso sistema potrebbe iniziare a scricchiolare. Tutti dovremmo chiedere trasparenza, origine, storie. Tutti dovremmo voler sapere chi c’è dietro un filetto, chi ha lavorato quel pollo, chi ha pescato quel pesce. E non solo per idealismo: per necessità, per salute, per giustizia.
Perché se non sappiamo cosa c’è dietro una proteina, finiamo per ingoiare tutto: lo sfruttamento, la menzogna, l’invisibilità. E il vero problema non è ciò che mettiamo nel piatto, è tutto quello che, per convenienza, scegliamo di non vedere.
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