Umano, innovativo, mai banale. Gianluca Vialli è stato campione anche nella comunicazione, nel suo ostinato tentativo di restituire un’immagine del calciatore contemporaneo diversa da quella dominante. Ha fatto della sua malattia un racconto intimo, profondo, sfuggendo a certa retorica per arrivare al cuore del dolore, dell’accettazione, di un rapporto per certi versi riconciliante con il destino. “C’è felicità nel dolore?”, si intitola l’episodio della sua chiacchierata con Alessandro Cattelan, mentre gioca a golf, nella serie “Una semplice domanda”, disponibile su Netflix.

Un modo nuovo di concepire le piattaforme, di coniugare leggerezza e profondità nell’universo dello streaming. Sin dalle prime interviste e pubblicazioni editoriali successive alla scoperta del tumore al pancreas, Vialli ha mostrato lucidità, consapevolezza, arrivando a parlare della malattia come «di un compagno di viaggio che spero prima o poi si stufi di me».

Nell’ultima intervista a “Che tempo che fa”, nel salotto del sampdoriano Fazio, andata in onda poco più di un mese fa, ha ricordato insieme a Roberto Mancini il trentesimo anniversario dello scudetto della Sampdoria, in occasione del documentario celebrativo “La bella stagione”; appariva provato a fianco dell’amico di sempre, eppure persino sorridente, con lo stile di chi va incontro alla sorte come a un evento possibile, tassello malvagio del mosaico imprevedibile della vita. 

In tv con onestà

I calciatori della Sampdoria Gianluca Vialli, Walter Zenga e Roberto Mancini / Foto LaPresse

Il rapporto di Vialli con la comunicazione, e la televisione in particolare, è sempre stato questo: di onestà, di verità, di continua scoperta. Mattatore in video quando ancora era calciatore, apparve come opinionista nel programma di Italia 1 “Settimana gol” a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.

Il calcio come veicolo di ironia e responsabilità allo stesso tempo, di un delicato equilibrio tra il non prendersi troppo sul serio e la necessità quasi morale di trasmettere valori, di uscire dagli schemi.

Non si sottrasse alla comicità della Gialappa’s Band (comparve a sorpresa in una gag dei “bulgari” Aldo, Giovanni e Giacomo), ma la svolta del Vialli televisivo avviene però nel 2002, a carriera da calciatore conclusa, quando venne ingaggiato dall’allora Tele+ (poi Sky) come opinionista, partecipando anche attivamente a uno dei programmi più innovativi e deliziosi dell’epoca: “Lo sciagurato Egidio” di Giorgio Porrà, un’investigazione socio-culturale nel mondo dello sport tra arte, cinema e letteratura, nel quale Vialli curava una rubrica chiamata “Fahreneit 451” (annunciata con tanto di frammenti dell’omonimo film di Truffaut), in cui salvava idealmente libri di sport dal rogo, leggendone brani e promuovendo un’editoria sportiva che da lì avrebbe ritrovato nuova linfa.

«Non morirò di vecchiaia»

Foto LaPresse

Un incontro inedito tra sport e letteratura che con quel programma e quella rubrica trovò autentica legittimazione. Nel 2015 sperimentò persino il linguaggio del talent e del reality; con Lorenzo Amoruso, altro ex calciatore che, come lui, aveva segnato prima di altri l’esodo dei giocatori italiani oltremanica, condusse “Squadre da incubo” su Tv8, un programma nel quale i due giravano l’Italia alla ricerca di squadre dilettantistiche dagli scarsi risultati provando a risollevarle.

Sempre con lo stesso garbo, la stessa curiosità, l’immutata voglia di dire e lasciare un segno. “Sono certo che non morirò di vecchiaia”, ripeteva nelle ultime interviste; nel cuore degli appassionati e nel complicato rapporto tra calcio e tv non se ne andrà affatto.

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