PPP non si commemora: si affronta. Non da atarassici coccodrilli borghesi. Ogni anniversario rischia di ridurlo a icona, disinnescarlo, ma il “martire laico” non può essere canonizzato: deve restare scandaloso, come fu sempre
Sono passati cinquant’anni, dall’alba di quel 2 novembre in cui fu ritrovato il corpo martoriato di Pier Paolo Pasolini all’Idroscalo di Ostia. Un anno prima, sulle colonne del Corriere della Sera si era lasciato andare ad uno sfogo contro la strategia della tensione, pur fiutando, intravedendo, che dalla padella, il contrappasso dantesco ne sarebbe stato il contraltare diabolico: la tattica della sterilizzazione. Brace e macerie.
Pasolini non si commemora: si affronta. Non da atarassici coccodrilli (accezione doppia) borghesi. Ogni anniversario rischia di ridurlo a icona, disinnescarlo, ma il “martire laico” non può essere canonizzato: deve restare scandaloso, come fu sempre.
Marxista senza dogmi, cristiano contro la chiesa, poeta avverso alla poesia compiaciuta di sé. Cittadino di un’Italia avviata a diventare società dei consumi, aveva capito che la rivoluzione sarebbe stata anestetizzata dal benessere, e il potere non si sarebbe più espresso con la repressione, ma con la seduzione. La deriva odierna vuole che, dall’anestesia del benessere, si sia precipitati nella narcolessia, se non la necrosi, del malessere.
Neofascismo temperato
Mezzo secolo più tardi, viviamo nel paese che Pasolini temeva più di ogni altro: non quello della repressione autoritaria di fasce riottose, ma della silenziosa asepsi di rane bollite. Il potere non si impone più (anche perché è sempre meno potente: non più scritto sulla scheda elettorale ma quotato al Nasdaq), ma seduce sottotraccia. È un neofascismo ben temperato e ancor meglio targettizzato, a braccetto con un ecosistema digitale standardizzato, annichilente.
«Il nuovo fascismo è il consumismo», denunciò, e aveva ragione da vendere.
Fu dissidente, innanzitutto rispetto alla sua stessa pars, che ci mise del suo: nel ’49 il Pci lo espulse causa amore, in quanto omosessuale. Eppure, sino alla fine continuò a dirsi comunista, ancorché «senza partito».
Era cineasta che usava le pellicole come pagine d’un vangelo laico, un linguaggio per dire l’indicibile. Nella sua opera convivono eros e pietà, sacralità e bestemmia, parola e carne. Oggi, in un mondo dove tutto è ritoccato, ultraprocessato, filtrato, falsificato, la sua estetica appare come un atto di verità ancor più brutale che nel 1975.
Il suo realismo non era culto della miseria, bensì una forma di amore disperato per la vita, e per la verità. Pasolini non volle mai piacere (ossessione dei tempi moderni, da Charlie Chaplin a Chiara Ferragni), né vincere. Voleva dire il vero, viverlo e rappresentarlo, e la verità non ha pubblico: tutti nudi, ma tutti re.
È stato prima di tutto un poeta, e in questo iperpolitico: perché solo la poesia sa dire la verità sempre, anche quando la politica smette di farlo. Ancora oggi molti lo ricordano, pochi lo sopportano davvero, perché Pasolini è antidoto contro l’autocompiacimento, allergico a progressismo (moderato, per carità! In Lettere luterane il suo «Io vi odio, cari progressisti») da salotto, amichettismo, acconciamento, conformismo e conservatorismo.
Tutti mali di una sinistra non autoflagellatoria per finta, ovverosia autoassolutoria per ignavia, bensì autocritica per convinzione ed evoluzione.
Era moderno perché parlava di ecologia culturale ancor prima di Næss, Guattari e Bookchin; perché vedeva il legame tra corpo e linguaggio, tra desiderio e potere; perché già vedeva come il conflitto del nostro tempo non sarebbe stato tra destra e sinistra, ma tra autenticità e artificio. Tra capitale e conflitto stesso.
L’importanza degli eretici
Pasolini ci ricorda che senza i suoi eretici, la sinistra si riduce a un’ombra gentile del sistema che dice di voler combattere, o al meglio senza dissenso diviene una destra con buone intenzioni. Lui andava a trovare ai margini, nelle periferie, gli ultimi, gli offesi di Ingrao o i dannati di Fanon (tutti e tre, scomodi ed espulsi, marginalizzati), per intervistarli, per immortalarli, per includerli. Di più: per immischiarsi.
Oggi su quel terreno la destra, da Caivano al Quarticciolo, costruisce il suo consenso in senso inverso: promettendo identità a chi non ha più comunità. Ecco, le sinistre devono tornare su quel campo – non largo: aperto – e immischiarsi. Ritrovarsi. Riconoscersi. Reinventarsi.
Cinquanta anni dopo, Pier Paolo Pasolini non è un santino da commemorare. Non fu mai un santo, e nemmeno un martire nell’accezione più funzionale della parola. Fu un contraddittore. Di sé, della sinistra, del potere, del popolo, del progresso. Antiborghese risoluto, imborghesito irrisolto. Borghese e borgataro. Apollineo dionisiaco.
Intellettuale senza eredi, irregolare tra gli irregolari (che oggigiorno sono conformisti che vogliono essere élite, o perlomeno establishment), Pasolini non ci chiede di piangerlo, ci chiede di contraddirlo. Di leggerlo e sconfessarlo, ma mai di ignorarlo. Sarebbe più impossibile che imbelle.
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