Trent’ anni fa arrivava in libreria Scuola di nudo che avrebbe portato nel panorama letterario italiano uno dei più importanti autori contemporanei. Fino ad allora Walter Siti era un noto critico e professore universitario che si occupava di avanguardia e poesia, quel romanzo ne capovolse la percezione offrendo la forza e l’audacia di uno scrittore capace di bucare – attraversandolo – l’autobiografismo per offrire uno sguardo liberatorio sul mondo.

Oggi con la pubblicazione del suo nuovo romanzo I figli sono finiti, Rizzoli, in qualche modo Siti offre il fianco alla lettura di un percorso che non ha facili paragoni nella letteratura italiana. Una capacità analitica a tratti fredda e cinica di cogliere l’orrore e la paura, nell’individuo come nella società in cui è immerso. Una consapevolezza che porta Walter Siti dalle parti di quella letteratura del Novecento di cui si è nutrito fortemente come nel caso di Pier Paolo Pasolini, ma anche fino al Goffredo Parise dei reportage e dei viaggi, per non dimenticare l’arguzia stilistica e lo sguardo sociale di Alberto Arbasino.

Tre nomi che non esauriscono il potenziale panorama novecentesco di Siti, ma che in parte possono chiarire come lui sia stato in grado di superare quell’esperienza letteraria non svicolando in una forma di annichilita sudditanza, come dichiarato recentemente ed esplicitamente da Sandro Veronesi rispetto alla sua stessa opera, ma lavorando su quelle dinamiche poetiche per restituire un’idea del romanzo e della letteratura contemporanea forte e attuale. Una capacità di leggere l’immaginifico come forma sostanziale di un culto, quello per un sogno impossibile da realizzare e come tale da sempre accompagnato dalla vertigine dell’incubo che diviene orrore.

Walter Siti ha in fondo trasformato quelle che erano le tensioni e le visioni della letteratura italiana del Novecento in un dato di fatto e lo ha realizzato semplicemente osservando attentamente la società in cui è immerso. La mutazione pasoliniana non è più imminente è nei fatti e nessuna forza del passato è più in grado più di percepirla. Quello che si può fare è viverla, come una forza - a tratti anche banalmente ridicola - dell’attuale presente.

In questo vivere la mutazione si distingue il coraggio poetico di Walter Siti che non recede mai dal bisogno di dare spazio e sostanza a un desiderio irreprimibile, altro discorso afferisce invece chi quel desiderio lo considera parte stessa della mutazione avvenuta. In tal senso prende forma, all’incirca nei medesimi anni l’idea romanzesca di Francesco Piccolo che in qualche modo si oppone a quella di Walter Siti. In questo caso Piccolo dà forma a una vera e propria trilogia del maschio. Tre romanzi: nel 2008 La separazione del maschio a seguire il successo al Premio Strega con Il desiderio di essere come tutti (2013) e l’ultimo capitolo (ad ora) con L’animale che mi porto dentro del 2018. Francesco Piccolo dà voce alla crisi del maschio contemporaneo e lo fa attraverso una rielaborazione letteraria autobiografica che però ha dei presupposti netti e certi dentro ai quali si installa una forma di sgretolamento del maschile eterosessuale che non cerca una forma nuova di liberazione, ma che pretende una consolazione. Uno stato di perenne esaurimento che vive e permane nella crisi come nel suo brodo ideale. Il desiderio di essere come tutti risulta così un titolo manifesto che porta il sé in una ricerca di conformismo obbligato in quanto ormai null’altro è più esplorabile.

È proprio questo presupposto che manca fortunatamente alla letteratura di Walter Siti che si sostiene in equilibrio sul vuoto tragico di una differenza che non ha platee condivise e che non pretende di averle. La normalità di Piccolo, pretesa e giustificata, non interessa a Siti nel momento in cui è alla ricerca della sostanza delle cose, ovvero di quello slittamento che rende l’umano sorprendente e al tempo stesso irreale.

L’invecchiamento e l’ovvio indebolimento occidentale si traducono in un’ossessione per il normale che occulta il vuoto dando forma a una paura incontrollabile, a un’irrazionalità tipica di un’annebbiamento percettivo. Il vuoto e la paura divengono così il terreno di lettura del mondo secondo Walter Siti.

Ed è su queste durissime fragilità che l’autore innesta Un dolore normale (1999) forse il suo romanzo che più chiarisce la propria poetica e che apre la strada a una visione della paura come spazio vuoto della normalità. Ciò che è desiderabile non è ciò che è consentito da una cultura conformista e reazionaria. L’arena dentro alla quale prende forma la lotta è infatti totalmente letteraria e quindi umanissima. Un confronto che è sempre erotico e carico di pulsione, in cui il vuoto e la paura vengono arginati dal sogno di un corpo, dalla presenza ossessiva di un desiderio obbligatoriamente da rinnovare. Una diversità necessaria a sé stessi quanto alla società: pena un esautoramento della diversità, ovvero l’esaurimento della società.

È il medesimo sguardo (seppure diversissimo stilisticamente) di Georges Perec nel Tentativo di esaurimento di un luogo parigino (1975). Ciò che rende impossibile proprio quell’esaurimento che oggi ci appare così tragicamente attuabile è il movimento compulsivo e ossessivo, continuo e come tale indecifrabile e contenibile dall’occhio. Un movimento oggi invece messo a rischio nelle città da un’assenza dell’umano che si perde nell’orda turistica che trasforma persone in gita in terremotati sfollati da ogni reale desiderio, così come nelle strade che furono vetrina di un’ancora ingenuo capitalismo fatto di pubblicità e consumo al minuto e oggi vere e proprie sale d’attesa brandizzate per un desiderio che sarà sempre di là dall’essere soddisfatto realmente.

Là dove Perec trionfa fallendo nella descrizione del reale, Walter Siti agisce intercettando spazi possibili per un romanzo che tenga quel dolore e quel tormento in un campo d’indagine romanzesco che individui nell’esaurimento quel vuoto aperto e disperante dentro al quale la differenza di generazione e di censo, di genere e di gusto è utile solo all’algoritmo dei nostri presenti desideri e non a quelli insiti nella nostra ormai irrilevante diversità.

Siti si posiziona dunque ben lontano da una forma letteraria che pretende di dare sostanza a una nuova (tentata) memoria collettiva in forma di autobiografia che invece appartiene appunto a Francesco Piccolo e con lui ad autori e autrici di una generazione appena dopo quella di Siti a cui invece non interessa rifiutare il conflitto in cambio di una forma qualunque di pacificazione.

Anzi a questo sguardo Walter Siti oppone tre romanzi come Troppi paradisi (2006), La natura è innocente (2020) e ora I figli sono finiti. Una rappresentazione straordinaria e potente di una crisi che esiste in quanto parte essenziale e determinante di un’esplorazione verso territori realmente ignoti e come tali candidi, felici e densi di eros e desiderio. Un desiderio che non può essere come tutti in quanto tutti dati e definiti, ma essere sempre per quei pochi in quanto realmente rivelati e scoperti. E qui torna alla memoria la battuta di Nanni Moretti in Caro diario: «Sai cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste: cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone». Battuta che non va riletta come opposizione tra maggioranza e minoranza, ma all’interno di una dinamica di scoperta del reale possibile.

La realtà vive in forma scritta solo se ancora non del tutto nota ed evidente, e di conseguenza se non è esaurita e quindi esauribile. In questo movimento la paura diviene l’elemento immobilizzante, quello che conforma e offre il gancio a una letteratura che si fa mero documento anatomico, il mai rimosso ombelico. Rivelazione corporale del vuoto oltre che della noia.

Se anche Walter Siti in qualche modo dall’ombelico parte, lo fa in quanto luogo dell’ignoto attraverso cui cogliere e accogliere corpi sorprendenti, in genere quelli di meravigliosi culturisti dalle forme levigate e gonfie. Maschi femminei (non in crisi) che contengono nella loro superficie lo splendore statuario del marmo insieme a una candida e imprevedibile morbidezza canoviana.

Un desiderio attraversato da una disperazione fatale, ma anche comica. Perché frequentare l’ossessione come capita ad Augusto, il settantenne protagonista de I figli sono finiti significa anche cogliere la leggerezza di una tragedia che sta quasi sempre già in nuce nelle piccole cose.

Il ridicolo del mondo ne è anche la sua cifra, tanto più in un Occidente decadente in cui l’unica realtà rilevante è quella della tragedia o del pettegolezzo. Trasformare tutto ciò in un’apparente gioco che diviene letteratura appartiene a pochi audaci interpreti del proprio tempo. Tale campo fu già a suo modo brillantemente presidiato da Alberto Arbasino da cui Walter Siti pare trarre ispirazione costruendo un pastiche dentro al quale l’amore si tramuta facilmente - o meglio si rivela - possibile liberazione sessuale. Ambito principesco del vuoto e luogo perenne di ogni più atavica paura. Il sesso è il fine di un desiderio, ma non certo il suo coronamento.

In un tempo in cui il post umano domina la contemporaneità, l’umano, terrorizzato, invece di accoglierne la valenza e le non poche opportunità si dedica compulsivamente a un’attualità nostalgica che trasforma già ora la rete in una sorta d’infinito rullo televisivo del come eravamo: ritorna il volevamo essere come tutti. Ma intanto la realtà agendo sul vuoto, riarma una distanza tra l’uomo e la natura che nel mondo attuale non può che assumere il nome e il pericolo imminente di un’estinzione sempre più plausibile.

Trent’anni dopo Scuola di nudo, Walter Siti con I figli sono finiti si conferma e al tempo stesso si mostra all’interno di una necessaria e continua rilettura. Un’opera compatta e uniforme capace anche di contenere uno spazio auto generativo di riscrittura come avviene nel caso del saggio Il realismo è l’impossibile riproposto dieci anni dopo (sempre per Nottetempo) in un’edizione che anche nei testi originari rende ancora più chiara la sua evidenza.

Quel vuoto così ossessivamente indagato attraverso il disegno letterario di sognanti corpi trans-maschili sembra così connettere direttamente Walter Siti a Pier Paolo Pasolini. Un’assenza così ostinatamente negata dall’Italia repubblicana sotto forma di retoriche sdolcinate e affrante, di politica dei buoni sentimenti e di kitsch malinconico che ha reso totalmente irriconoscibile il cadavere del poeta. Un corpo corroso dall’acido di una nostalgia che ne nega ogni forma poetica e ogni ambizione artistica in un abbraccio che non lascia più nemmeno le ceneri.

Siti ricerca con ostinazione il senso di una mitologia erculea (fondamentale la raccolta di racconti Tutti i nomi di Ercole) che non neghi il bar sport e il commento del lunedì (ormai diffuso a ogni giorno della settimana) e tanto meno la necessità liberatoria di un pompino insieme alla meraviglia di un’assurda coincidenza astrale. Tutto vive in un vortice rapidissimo, il girotondo felliniano si fa ferocissimo eppure casalingo. Sale in scena la società letteraria che è il tutto e il niente della società stessa, più somara che colta, la cui ambizione è data semplicemente da un insito poraccismo.

La periferia è l’ultimo possibile palcoscenico di un non luogo (a procedere) in cui tutto permane e si diffonde (Il contagio, 2008). La buona occasione è in forma di estrogeni, cocaina e panorami disincantati, mentre laggiù la città diviene archeologia contemporanea di un fuori salone o di un residuo storico a uso e consumo di infradito in inciampo perenne. Walter Siti coglie l’orrore della paura, la nostra tutta occidentale di chi credeva di potersi salvare alimentando il proprio senso di colpa, mentre il resto del mondo sempre a più a suo agio in una realtà che non si vieta ogni forma possibile d’immaginazione, vive ormai senza più alcun bisogno di noi e del nostro perenne passato. Felici delle nostre apparenze, passiamo l’ennesima serata guardando Techetechetè: rabbrividente raccolta della nostra scomparsa. 

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