Il dibattito sulla scuola è spesso caratterizzato da una spiccata tendenza al vanverismo pedagogico. Questa tendenza presenta sintomi ben precisi e possiamo, in primo luogo, riscontrarla nel ricorso a stereotipi e luoghi comuni a sostegno di generalizzazioni indebite e di opinioni paternalistiche e retrive che idealizzano il passato e si esprimono con sommaria severità nei confronti delle giovani generazioni (definite, a seconda dei casi, alienate, fragili, ignoranti).

Il discorso a vanvera ostenta una pregiudiziale e disinformata contrarietà verso le scelte innovatrici che, di tanto in tanto, caratterizzano le soluzioni organizzative, pedagogiche e didattiche adottate da scuole e docenti (come quelle basate sull’inclusione, sull’attivismo, sull’apprendimento cooperativo).

Qualcosa di recente sta cambiando: il dibattito sulla scuola sembra aver acceso i riflettori sul fatto che in alcuni istituti si sta affermando la tendenza a incentrare la valutazione in itinere (ovvero quella che avviene durante l’anno, nel corso della didattica) su riscontri descrittivi piuttosto che sui consueti voti.

Questa scelta oltre a suscitare interesse ha anche destato perplessità da parte di chi ritiene che il voto rappresenti uno strumento formativo necessario. Si tratta delle stesse perplessità che qualche anno fa portarono alla reintroduzione del voto numerico nella scuola primaria e secondaria di primo grado (le medie).

Nel 2008 l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti scriveva sul Corriere della Sera che «la mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici. I numeri sono insieme precisi e semplici. Il messaggio che trasmettono è un messaggio diretto» concludendo che «frasi complesse con finalità descrittive» avrebbero reso impreciso il messaggio.

Le semplificazioni

Le parole di Tremonti rappresentano un’ottima sintesi del riduzionismo retrivo che troppo spesso impedisce di inquadrare adeguatamente i processi educativi e valutativi. Sappiamo che la mente umana non è affatto semplice e che in campo educativo di “diretto” v’è poco o nulla, dato che l’apprendimento è un processo legato a mediazioni continue tra individui e ambienti. Inoltre, l’idea che i voti siano più efficaci di «frasi complesse con finalità descrittive» non solo confligge con quello che abbiamo sin qui appreso in ambito psicopedagogico, ma è anche clamorosamente smentita da concrete esperienze in aula.

Decenni di ricerche empiriche evidenziano che generalmente a incidere positivamente sullo sviluppo degli apprendimenti sono proprio i riscontri valutativi di natura descrittiva, contenenti indicazioni dettagliate sull’attività svolta. Al contrario, gli effetti di comunicazioni non informative come lodi, rimproveri o voti (numerici o meno che siano) risultano spesso trascurabili o addirittura negativi.

L’innovazione

Cosa sta cambiando in alcuni istituti? Scuole e docenti che non incentrano più sui voti il processo valutativo hanno deciso di usare la valutazione come mezzo di regolazione di insegnamento e apprendimento piuttosto che come fine.

Si tratta di scuole e docenti che non ricercano ricette demagogiche e fanno coraggiosamente i conti con l’impossibilità di cambiare i processi valutativi lasciando intatto l’insegnamento.

L’impiego della valutazione come mezzo comporta inevitabilmente la disponibilità a mettere alla prova dell’esperienza le proprie scelte didattiche usando la conoscenza generata dal processo valutativo per arricchire le successive attività. Come evidenziato in una recente sintesi di numerose indagini (The power of feedback revisited: A meta-analysis of educational feedback research, di Wisniewski, Zierer, Hattie. In Frontiers in Psychology, 10, 2020), i riscontri che migliorano l’apprendimento sono quelli che aiutano studentesse e studenti a rivedere soluzioni poco funzionali: lo fanno fornendo indicazioni su come ipotizzarne altre e metterle alla prova.

Sappiamo che un elemento basilare di questo tipo di valutazione è rappresentato dall’errore, impiegato non più come elemento di stigma o penalizzazione, ma come fondamentale opportunità di insegnamento e apprendimento. Va anche considerato che, a parità di portata informativa, i riscontri tra chi apprende sembrano essere più efficaci di quelli forniti dall’insegnante. Il coinvolgimento attivo di studentesse e studenti nel processo valutativo rende più significativo l’apprendimento e contribuisce a migliorare motivazione intrinseca, benessere individuale e clima di classe. Non è un caso che la valutazione concepita come mezzo di regolazione di apprendimento e insegnamento si ponga in aperto contrasto con le dinamiche competitive tossiche incentrate sui meccanismi premiali e punitivi spesso collegati al voto.

Un altro errore commesso da chi contesta la scelta di impiegare i riscontri descrittivi consiste nell’ignorare che il voto non ha una funzione formativa. Il voto serve ad attestare sulla scheda il livello raggiunto negli apprendimenti, non a fornire indicazioni di miglioramento. A questa confusione sulla funzione del voto si aggiunge la tendenza a considerare voto e valutazione sinonimi: a scuole e docenti che fanno a meno del voto nella valutazione in itinere viene non di rado rivolta l’accusa di non valutare. Al contrario, si tratta di scuole e docenti che valutano, ma ricorrono ai voti solo dove è obbligatorio (sulla scheda di fine quadrimestre o di fine anno) e nel resto del tempo usano i riscontri descrittivi perché usano la valutazione non come fine che sta alla fine ma come mezzo che sta in mezzo.

Il voto (numerico o meno che sia) è solo una particolare scelta comunicativa della valutazione. Se lo scopo del processo valutativo non è la produzione di classifiche meritocratiche ma il miglioramento di apprendimento e insegnamento è bene impiegare mezzi più adatti del voto. D’altro canto, se è vero che, come ricordava Mario Lodi, si insegna per asservire o per liberare, è vero anche che valutiamo per riprodurre o per trasformare: un po’ di consapevolezza non guasta.

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