Un giorno qualcuno dovrà indagare davvero a fondo – e senza paura – il più grande mistero della letteratura italiana del nostro tempo: vale a dire Italo Calvino. Lo scrittore nato esattamente cento anni fa (alle 9.30 di mattina del 15 ottobre 1923, a Cuba) è, in tutta la sua abbagliante presenza, come una grande luna ancora parzialmente coperta da nuvole.

Attenzione: indagare non già Calvino, oggetto di centinaia di studi critici in tutte le lingue, bensì il suo mistero. Ed è curioso che oggi, di fronte ad esso si ponga – come dinnanzi a una fatica estrema, e anche un po’ struggente – uno degli uomini che più a fondo lo hanno conosciuto, frequentato, dopo averlo letto e amato, e in fine riletto.

Quest’uomo è il torinese Ernesto Ferrero, scrittore ed editore, che conobbe Calvino a venticinque anni, nel 1963, quando cominciò a lavorare presso l’Einaudi dove oltre che una colonna della casa editrice, era già un autore di grande successo (Il barone rampante) in procinto di lasciare Torino in direzione Parigi, dove vivrà a lungo, per poi rientrare a Roma gli ultimi anni della vita, conclusasi il 19 settembre 1985 a Siena.

Ferrero subito avverte che Calvino non era nulla di quanto di lui è stato mitizzato, speculato, infarcito. D’altra parte, lo scrittore ci mise del suo per rimanere un enigma. La fortezza-Calvino non doveva essere profanata per volere di Calvino stesso. La sua ambizione era scomparire, come aveva indicato Flaubert nella sua regola destinata ai romanzieri: quello che si deve vedere è l’opera, non l’autore.

Calvino ci è riuscito? Questa è la grande domanda: è davvero scomparso? O non ci ha piuttosto strenuamente tentato senza riuscirci? Mi pare sia questo l’interrogativo che corre sotto la superficie di Italo, che ora esce da Einaudi, nel quale Ferrero si pone e pone al lettore le domande: «Che cosa sta registrato nella “scatola nera” che non voleva farci ispezionare? Che cosa si estende sotto la punta dell’iceberg che ha voluto essere? In definitiva, chi era veramente Italo Calvino?».

Il libro

Quello di Ferrero è un saggio biografico? Un memoir allo specchio? Una rievocazione sentimentale alla ricerca del tempo perduto? Certamente è tutte queste cose, ma è anche un ritratto vivido e per certi versi definitivo, perché si edifica proprio sul presupposto dell’enigma.

Chi era veramente Calvino? È l’avverbio a fare la differenza. E molto del mistero va ricercato nell’infanzia, nella geografia ligure, nel padre agronomo e «nomade» da cui, nonostante fossero due poli in opposizione, Calvino ha preso moltissimo: innanzitutto proprio il nomadismo.

La storia di Calvino è la storia, ci racconta Ferrero, del figlio di un padre e una madre singolarissimi. Calvino divorava “Il Corriere dei Piccoli”, e il padre era, per lui, come uno di quei personaggi usciti dalla rivista: «il dottor Piramidone dalle invenzioni geniali e strampalate, lo zio Diomede che ha la mania della fotografia».

Mario Calvino era un ciclone, un uomo soverchiante e indomabile, uno scienziato-contadino, un avventuriero erudito alla Indiana Jones, con il cappellaccio e il cinturone. Era uno che si prendeva la vita nelle mani come la terra dei suoi appezzamenti sopra San Remo, dai quali Italo a un certo punto è scappato, perché era tutto tremendamente faticoso. Un tradimento.

Amorevole, appassionato, inevitabile, ma vissuto dallo scrittore così, come un voltare le spalle alla terra e alla sua geografia interiore. Un dolore che forse in Calvino non si è mai spento. Scrive Ferrero: «Padre e figlio sono più vicini di quanto pensino: cercano entrambi di dare un ordine e un senso generale al mondo, sia pure con strumenti diversi. Tutti e due ambiscono a una sorta di padronanza totale dell’esistente, non si accontentano di acquisizioni parziali. Li rode un’ansia d’infinito, di illimitato…».

ANSA

Ma, per la sua generazione, c’è la grande prova, la grande linea di demarcazione: la guerra. «La guerra è il sasso che, sollevato, svela la vita brulicante del sottoterra, insieme ripugnante e dotata di un suo fascino oscuro, che diventa rimorso, sensazione di inadeguatezza e impotenza» scrive Ferrero. La scrittura come molla per superare quel rimorso nasce qui, nella Resistenza. Una scoperta che sgomenta: l’orrore si può raccontare e sconfiggerlo scrivendo, perché in altro modo non si può. E mi pare illuminante la riflessione di Ferrero sul fatto che la riservatezza di Calvino, che sconfina in reticenza, abbia inizio qui, nel non-raccontare mai fino in fondo quei mesi passati nella brigata Garibaldi con l’alias di Santiago, insieme al fratello Floriano. E qui nasce tutto il suo stile ricostruttivo, allusivo, sviante.

«La sua è la guerra di un semiologo che cattura segni e cerca di sistemarli in un discorso organico; ma anche di un antropologo che si ritrova sottomano uno spaccato sociale brulicante di diversità; di un disegnatore e caricaturista che sa cogliere i dettagli che rivelano un uomo o un paesaggio».

I successivi quarant’anni di attività saranno intensissimi di libri, successi, viaggi, lavoro indefesso sui libri degli altri, ma non si può non rilevare che i "racconti di guerra" così come Il sentiero dei nidi di ragno siano alcuni dei pochi momenti in cui è possibile udire più chiara che altrove la voce di Calvino.

Nel suo libro Ernesto Ferrero ci racconta il viaggio lungo e tortuoso con cui lo scrittore ha cercato di allontanarsi dalla responsabilità di raccontare il peso del visibile, mi viene da dire, il peso del sanguinante – ecco allora il tragicomico visconte dimezzato, ecco lo svanito Marcovaldo, la non entità cifrata e universale di Qfwfq (personaggio mai abbandonato fino alla fine), ecco l’occhio raggelato e distante del signor Palomar, persino il Marco Polo che descrive città invisibili (possibili?) a un ascoltatore tutto sommato distratto e inconcludente, ecco dunque le fiabe italiane, patrimonio di fantasia popolare, archeologia umana, riportato faticosamente alla luce. E dunque: chi era veramente Italo Calvino?

Se c’è una risposta, nascosta nelle bellissime pagine di Ferrero, è che la risposta non c’è, e se c’è è molto più semplice di quanto abbiamo sempre creduto. «Italo aveva conservato fino alla fine una forma di candore, d’innocenza. Un bambino che aveva voluto restare sé stesso, sino in fondo. Che aveva rifornito di storie, fiabe a apologhi quegli altri i bambini, i lettori».

Ma allora alla fine del racconto di Ferrero, capiamo che forse siamo sempre caduti in un equivoco, pensando, illudendoci che scrivere per lo scrittore significhi costruire qualcosa, o addirittura salvarsi. Annota, con una smorfia di timida ironia che potrebbe essere calviniana: «Ma la scrittura non garantisce niente, tanto meno promesse di felicità». Eppure a volte la realizza, come nient'altro riesce a fare.

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