Silvio Perrella non è tanto d’accordo con la tesi di Antonio Franchini (precedente puntata della nostra inchiesta) secondo la quale l’immagine di Italo Calvino come «modello intellettuale» si precisò solo dopo la morte dell’autore de Il barone rampante, avvenuta il 19 settembre 1985 (a 61 anni di età) o addirittura dopo la pubblicazione delle Lezioni americane, tre anni dopo. «Io per esempio l’avevo preso a modello molto prima» afferma lo scrittore e critico letterario nato a Palermo ma napoletano d’adozione (vive da tanti anni davanti al Golfo di Napoli).
E aggiunge: «Ricordo che le Lezioni americane suscitarono una grande discussione, nonostante fosse un libro postumo, così come Sotto il sole giaguaro, entrambi incompiuti. Però credo che la vera linea di demarcazione fu Se una notte d’inverno un viaggiatore, un libro che impone Calvino in maniera molto forte, tanto da indurre Gian Carlo Ferretti a scrivere Il bestseller all’italiana. Con quel libro eravamo sul crinale di un cambio di stagione, non a caso nel 1980 esce Il nome della rosa, che ha un successo molto superiore. A Calvino probabilmente non faceva piacere essere accomunato a Umberto Eco, come accade nel libro di Ferretti, perché le loro erano operazioni molto diverse. Quella è una stagione dove in Italia torna il desiderio di narrazione, una stagione di autori “calviniani”, da Daniele Del Giudice a Antonio Tabucchi, che negli anni Ottanta avranno una certa circolazione. Nella prima metà degli anni Settanta la letteratura italiana aveva fatto fatica, le uscite erano isolate. Calvino restò in silenzio a lungo: il suo libro precedente, Le città invisibili, era del 1972, lo stesso anno dei Sillabari di Goffredo Parise». 

Allievo di Cesare Garboli, che lo indirizzò a occuparsi a fondo proprio di Parise – scrittore del quale ha curato moltissime riedizioni, e affrontato in alcuni libri molto belli, come Adii, fischi nel buio, cenni (Neri Pozza) – nel 1999 Silvio Perrella pubblicò Calvino, un saggio diventato uno dei testi centrali della cosiddetta “calvinologia” e che oggi torna in libreria sempre per Laterza in una nuovissima edizione senza apparato critico e note, vale a dire, dice lo stesso Perrella, «come una pura narrazione».
Laureato con una tesi proprio su Calvino, nel suo saggio Perrella introduce alcune ipotesi interpretative ancora adesso molto interessanti, come quella del «falsetto calviniano», quella dei «commiati» e delle «rimozioni». Per il critico, Calvino è un autore che ha figliato più tra gli antropologi, gli educatori, gli psicologi e i saggisti, piuttosto che tra i romanzieri. 

La svolta

«Parlavi de Le città invisibili. Per quale motivo viene considerato un testo di svolta?».

 «Le città invisibili è il libro dove Calvino sembra abbandonare il romanzesco» risponde Perrella, «mentre Se una notte è il libro del grande elogio del romanzesco, sebbene sia un elogio malinconico, nel senso che tiene i motori su di giri mentre forse non ne ha più tanta voglia. Sento che sta faticando. Non è un caso che parallelamente stia scrivendo Palomar, un libro più simile alle Città, del quale egli sosteneva fosse le sue Operette morali (allude al classico di Giacomo Leopardindr), un libro cioè dove emerge il sostrato saggistico, l’immaginazione, la solitudine del personaggio…».

«Cosa pensi delle Lezioni americane, a rifletterci oggi?».

«Che girano fondamentalmente sulla prima lezione, quella sulla leggerezza. Il motivo è che sulla leggerezza si fonda un qualcosa che diventa popolare. L’idea della leggerezza, del light, è un grande equivoco, tanto è vero che Alberto Arbasino più volte ne scriverà prendendo le distanze dalla lettura che si faceva di Calvino a partire dalla leggerezza, ricordando che la leggerezza è una cosa molto complicata che si acquisisce dopo lunghi periodi di complessità e pesantezza». 

«Come lo descriveresti questo equivoco?».

«La domanda forse dovrebbe essere se la leggerezza può davvero essere un valore o no. E in Calvino la leggerezza è una tecnica più che un valore, ed è questo il motivo per cui alla fine ti rimane poco tra le mani, se tu non la inserisci nei contesti della sua vita. Che non è la vita di una persona leggera». 

Pesantezza

Perrella propone un paragone che raramente si sente evocare, quello con Alberto Savinio: «Savinio parlava degli uomini leggeri, diceva: il futuro sarà degli uomini leggeri. È curioso che Calvino nelle Lezioni americane non citi mai Savinio, e non includa nemmeno Aldo Palazzeschi, coloro cioè che sono stati sicuramente dei suoi modelli primari. Li rimuove. Quei modelli di vera leggerezza gli creavano difficoltà, perché forse avrebbero messo in luce la differenza con la sua di leggerezza, più tecnica che reale».

«Arbasino», dico io, «per usare un facile gioco di parole, sembrava esserci andato giù pesante a proposito della pesantezza di Calvino. Ma cosa voleva dire in realtà, dietro la sua valutazione apparentemente tranchant?»

Perrella chiarisce: «Arbasino in sostanza dice che bisogna stare attenti, perché la leggerezza di Calvino è abbastanza pesante. È una leggerezza tragica, da collocare nel contesto di qualcuno che va accomiatandosi dalle cose che gli provocano dolore. Come si raggiunge la leggerezza? Calvino dice: attraverso la trasversalità e reinterpretando il mito della Medusa; non guardo la Gorgone in faccia ma attraverso il suo riflesso sullo scudo, così da non esserne pietrificato; anzi, uso a mio modo il suo potere di pietrificazione portando in giro la testa della Gorgone nel mio sacco. Ancora una volta: una delle fonti del mito della medusa, cioè Roger Caillois, Calvino non lo cita, però è l’origine della reinterpretazione del mito. Caillois è colui che ha inventato le scienze diagonali, la “diagonalità”, un modo di connettere le parti del sapere del mondo in una maniera non frontale ma tenendo conto di scarti anche improvvisi. Anche il falsetto di cui parlo nel mio libro è una voce diagonale, cioè una voce che passa attraverso altri risuonatori che non sono quelli dei polmoni».

Rimozioni andate a buon fine

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Lo interrompo: «Il punto mi pare però un altro: codesta “trasversalità”, come la chiami tu, ha una riuscita letteraria?».

«A volte sì a volte no. Però complessivamente c’è. Nella qualità della prosa, non in un singolo libro. Nel mio saggio dico che le due grandi prose nel Novecento sono, all’inizio del secolo, quella di Benedetto Croce, e alla fine, quella di Calvino. Entrambe arrivano alla chiarezza per via di rimozioni. Giacomo Debenedetti diceva che quella di Croce è una rimozione andata a buon fine, e più o meno lo dice anche Alfonso Berardinelli. Potremmo dire la stessa cosa di Calvino. Ci sono riuscite letterarie molto superiori a quella di Calvino in quel periodo, per esempio quella di Parise, che però magari non hanno avuto un giardino ben curato dove puoi atterrare, che invece in Calvino c’è poiché lui lo ha preparato. Non solo si è costruito quella prosa, ma ha preparato il luogo culturale in cui doveva agire».

«A cosa ti riferisci?».

«Al luogo in cui quella prosa poteva vedersi. Diciamolo: Savinio non è stato visto per decenni, eppure era lì! Non si vedeva! Ci sono cose che pur essendoci non si vedono. Leonardo Sciascia e Giorgio Manganelli a un certo punto hanno detto che Savinio era il più grande scrittore del Novecento. Però non lo vedeva nessuno. Gianfranco Contini lo esclude dall’antologia einaudiana di Italia magica. Certo, Savinio aveva il fratello Giorgio De Chirico che gli faceva ombra, ma si tratta comunque di svarioni enormi!». 

La sordità

C’è un aspetto che mi ha colpito, dico a Perrella, e cioè che nelle Lezioni americane non c’è mai un riferimento alla musica, né a un compositore. Non è obbligatorio, beninteso, ma in molte teorie letterarie, penso a George Steiner, la musica è molto presente, basta leggere Errata e Vere presenze. Penso a quel testo ancora oggi carico di mille suggestioni che è Aspetti del romanzo di E.M. Forster. E ovviamente penso a Milan Kundera, che non vede prassi letteraria senza raffronto con l’arte della composizione musicale, si leggano I testamenti traditi. 

Perrella sorride sornione: «Giustamente tu cogli che in Calvino c’è una sordità, e da lì deriva secondo me la questione del falsetto».

«Ecco, appunto», gli dico, «questa storia del falsetto è l’aspetto che più mi ha intrigato del tuo libro. Spiegamelo bene: cosa significa quando dici che Calvino “usa il falsetto”?».

«Vuol dire che lui si deve inventare una lingua che gli risuona nella testa più che nelle orecchie. È anche una paura; ancora una volta è una rimozione, non è solo una “sordità”. Perché i “calviniani” ortodossi si sono irritati con la mia teoria del falsetto?».

«Perché?».

«Perché spesso non sanno neanche cos’è il falsetto in musica, e pensano quindi che sia un giudizio di valore, una diminuzione. Invece io arrivo al falsetto perché sono un ascoltatore di musica, un appassionato di Robert Wyatt, che è un genio e canta in falsetto; e il suo falsetto diventa ancora più interessante quando Wyatt finisce su una sedia a rotelle, paralizzato. Individuare il falsetto in Calvino sarebbe stato impossibile senza una formazione musicale, come io invece ho avuto, suonavo la chitarra e la batteria. Sai che il falsetto si dice anche “la voce di testa”. Quindi non è un giudizio di valore, ma un giudizio tecnico. Montale diceva: la letteratura è un fenomeno disperatamente semantico. Aveva ragione, pensa la libertà che hai con la musica». 

«Mi fai venire in mente», dico, «George Steiner quando dice che la musica non mente mai, non può mentire, la musica è aliena dalla verità e dalla menzogna. Faceva un esempio fantastico: il principiante sbaglia i suoi esercizi di contrappunto, tuttavia tali sbagli non costituiscono affatto una falsità o una menzogna. Con questo, si spingeva a dire che la musica prende forma da una fondamentale “disumanità”, o se vogliamo “non-umanità”. Prima dicevi “l’irritazione dei calvinologi”: ho notato che c’è una certa soggezione quando si parla di Calvino. Ermanno Cavazzoni diceva: è uno di quegli autori di cui si deve parlar bene. È vero secondo te?». 

Perrella riflette, poi dice: «Il timore che può suscitare, forse, può derivare dal fatto che Calvino incarna non un autore ma un’idea di letteratura, come se fosse la letteratura tout-court, quindi qualcosa di più di un singolo scrittore. D’altronde quand’ero ragazzo per me è stato un po’ così, una volta aperta la porta di Calvino è come se fossi stato accolto nella città della letteratura. Dopo i racconti, il primo libro che comprai in contemporanea all’uscita fu Se una notte d’inverno un viaggiatore… Lo divorai in una notte! Con il tempo, poi, è diventato il libro di Calvino su cui ho più dubbi. Non lo metterei in prima fila».

«Cosa metteresti?».

«La nuvola di smog, dove mi pare Calvino si riveli pienamente. Guarda, a proposito di quello che dicevi della soggezione, io ho fatto in tempo a conoscere Libereso Guglielmi, il giardiniere che lavorava con il papà di Calvino. Ecco: il libro di Guglielmi è bellissimo, è uno dei più belli scritti su Calvino, da uomo libero, senza quella paura, quella soggezione di cui parlavi».

La tecnica del falsetto

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«Perdona, ci siamo persi un pezzo: non mi hai detto perché Calvino secondo te usa il falsetto».

«Perché scopre molto presto che con la sua voce avrebbe avuto delle difficoltà – mi riferisco a tutta la questione dell’autobiografia. Tanto è vero che il famoso racconto mai scritto – e che doveva essere nodale nella sua autobiografia – doveva intitolarsi, lo aveva già lasciato scritto, Istruzioni per il sosia. Il problema era come usare sé stesso, la propria autobiografia, per fare lo scrittore. Si è accorto che se avesse usato sé stesso sarebbe diventato uno scrittore mediocre. Così scopre la trasversalità, la scopre presto, con l’istinto che si ha quando si cerca di uscire da una gabbia». 

«Ma questa supposta mediocrità era reale o una sua paranoia?».

«Ci sono tre racconti in cui si accorge che la cosa non funziona. C’è una preistoria di Calvino in cui fa delle prove, come I giovani del Po, che non pubblica in libro: lì sentiva il piombo sulle ali e preferisce non farlo vedere. Ma il falsetto non è solo una tecnica, è anche una postazione di sguardo, ha a che fare con la vita. Palomar si congeda con una prosa intitolata “Come imparare a essere morto”, ma attenzione, non vuol dire “io sono morto”, significa piuttosto togliere me da quello sguardo. Io sono ancora in vita, ma guardo come se fossi morto. Ho riflettuto molto sulla figura di Prospero, il re della magia che spezza lo scettro e fa a meno del suo potere…»

«La evochi se non sbaglio nel finale del tuo libro su Calvino».

«Si, perché il Calvino che scrive le Lezioni americane è un Prospero che ha dismesso le arti della finzione ed è tornato a parlare con la sua voce, ha dismesso il falsetto, e fa una fatica enorme perché non ci è più abituato e ci muore dentro. La tomba di Calvino, se ci fai caso, è il frontespizio di un libro, ha la forma di un frontespizio. È molto interessante che la tomba di Calvino sia lì, a Castiglione della Pescaia, in un piccolo paese del centro Italia, quando uno se la immaginerebbe a Parigi, a Sanremo, a Cuba…».

«Perché è interessante?».

«Perché la vita poi ti dà la misura. Puoi pensarti sugli schermi del cosmo, ma poi la vita ti dà la misura… Poteva essere l’inizio di una bellissima stagione. Ha a che vedere con il discorso su Prospero: aveva deciso di venire fuori. Calvino nella voce aveva una coloritura ligure che non ti aspetteresti, come in quella di Anna Maria Ortese risuonava l’Italia centrale e non cosmopolita. Le Lezioni americane non sono una pietra tombale, ed è interessante che la sua tomba abbia la forma del frontespizio, perché lì, in quel frontespizio, è come se ci fosse l’annunzio di un nuovo prossimo libro di Calvino, che prima o poi arriverà. Calvino dà il meglio di sé se tu lo lasci potenziale». 

Il ricordo

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«Hai un ricordo personale?».

«Lo vidi una sola volta, nel 1984, a Palermo, la mia città: mio padre ci andava per lavoro e mi accodai, sapendo che per il Premio Mondello ci sarebbero stati Calvino e una serie di studiosi che avrebbero letto delle relazioni sul suo lavoro. Aveva vinto il premio per Palomar. Parlò anche lui, di come il lavoro della Fiabe italiane fosse stato colossale, e che dovette fare tutto da solo.
Se noi dovessimo dare oggi due suoi libri ai giovani dovrebbero essere le Fiabe e il volumone dei Racconti, due libri che si specchiano l’uno nell’altro. Non coltivo il feticismo dell’autografo, ma avevo portato con me Palomar e Il sentiero dei nidi di ragno. Mi avvicinai a lui. Prese Palomar e fece la sua firma bella svolazzante come un cavaliere della calligrafia. Poi guardò Il sentiero, lo allontanò un po’ da sé e fece una firma molto frettolosa, diversa dall’altra. Capii allora quanto uno scrittore possa nutrire dei sentimenti nei confronti dei propri libri così diversi da chi li legge».

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