«La prima volta che vai a Sanremo/ Sei una bomba che esplode in un convento/ Dalla seconda volta sei già/ Un coglione che fa parte dell’arredamento». Ha qualcosa di liberatorio ascoltare il pentimento pubblico de Lo Stato Sociale in una canzone di un mese fa, Fottuti per sempre, impreziosita da alcuni versi di Vasco Brondi sull’andare ai concerti «sconvolti come un rito sciamanico», ma solo quando si è «giovani o pazzi».

Lo Stato Sociale ha partecipato a due edizioni di Sanremo, trovando un posticino da alternativi nel variopinto mainstream italiano.Vasco Brondi se n’è sempre tenuto lontano ma ha vinto il premio Tenco. Nessuna idea se il pentimento sia reale o di maniera. La canzone, ha spiegato Lodo Guenzi a Rolling Stone, non è «un pezzo di scuse», sarebbe invece una riflessione sul diventare adulti «rinunciando a una parte di sé stessi».

In un’altra intervista il duo milanese Coma Cose che ha partecipato a due edizioni del festival ed è atteso alla prossima, riflette pensoso: «Sanremo era il luogo del male perché era il mainstream per eccellenza ma la domanda da farsi oggi è: cosa è mainstream, e cosa è alternativo?». Giusto. Ci sono stati tempi –  nemmeno troppo lontani – in cui andare al festival di Sanremo ricadeva per lo meno nel regno di mezzo del trash. Quasi sempre involontario. I vecchi osservatori sanno che tutto è già accaduto, in un certo senso.2

Un incubo distopico

Per vedere il festival Luchino Visconti chiamava accanto a sé il meglio del cinema romano nella sua casa di via Salaria, come allegra consuetudine camp. I suoi figli e nipotini di era social adesso fanno meme su Instagram e filmatini su TikTok, oppure giocano al Fantasanremo.

Pier Paolo Pasolini, al contrario, era un tipico esempio del piacere colpevole indotto dalla canzone. Difendeva Claudio Villa dagli urlatori, adorava Celentano che incontrò a Milano in una specie di pellegrinaggio assieme a Ninetto Davoli. Odiava il resto. Scrisse su Tempo: «Il festival di Sanremo e le sue canzonette sono qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società». Quel che è peggio, aggiungeva, è che tutti i sessanta milioni di italiani se potessero pagare il biglietto andrebbero a vederlo in carne e ossa. «I centomila disgraziati che si tappano le orecchie e si coprono gli occhi di fronte a simili bestialità sono abitanti di un ghetto che si guardano allibiti tra loro, senza speranza. E i più non osano nemmeno parlarne». Era il 1969. L’idea del festival di Sanremo come un incubo distopico magari è esagerata. Di certo più attuale oggi che allora.

«Ci dicono cantate dei boschi e fiori (...) Della gente lietamente/ con filo di ferro le palpebre cucite», cantava Margot dei Cantacronache nei primissimi anni '60. Scritta da Emilio Jona e Sergio Liberovici, la Canzone dei fiori e del silenzio è uno dei manifesti teorici del gruppo di musicisti e intellettuali che contestarono per primi il festival di Sanremo con le sue stesse armi, quelle della canzone. Si ispiravano a Brecht-Weil, alla chanson francese, avevano come compagni di strada Italo Calvino e Franco Fortini, avevano letto Adorno e la critica alla musica «gastronomica» dello stesso Brecht.

Erano «stufi e delusi della pessima qualità delle canzonette presentate al Festival di Sanremo, della ripetitività dei loro testi (le rime amore/cuore) e della banalità delle musiche». Inauguravano l’èra della canzone impegnata, tenevano a battesimo l’etica penitenziale dei cantautori.

Umberto Eco

Dei Cantacronache, all’inizio, fa parte Umberto Eco che si esercita per loro nella scrittura di alcune parodie. Lo stesso Eco scrive la prefazione del pamphlet del 1964, Le canzoni della cattiva coscienza, di Liberovici e Jona. Nel breve saggio, ripubblicato su Apocalittici e integrati, Eco con una sottile vena polemica dice ai suoi vecchi compagni di strada: è vero, avete ragione, le canzoni di Sanremo sono tutte uguali, gastronomiche, dannose, ed è un bene che adesso si sentano canzoni diverse, che parlano di cose importanti.

Ma attenzione, aggiunge, perché c’è qualcos’altro che le canzoni danno agli ascoltatori: l’emozione, è il ballo, il gioco, la distrazione persino. E questo non si può ignorare, se si vuole creare una canzone nuova. È un saggio di 50 anni fa, ma l’osservazione sulla complicatezza delle canzoni come oggetto estetico è ancora perfetta.

Nel 1969, 30 gennaio ore 21, alla villa Hormond di Sanremo veniva convocato il primo (e unico) Controfestival. Ingresso gratuito. Il costo delle poltrone del festival vero, che allora si svolgeva ancora nel teatro del Casinò, è da sempre oggetto di un blando sensazionalismo giornalistico sul pubblico di cummenda, potenti e wannabe che applaude di persona .

«Il festival della canzone – si legge nel volantino di convocazione – fa parte di un sistema che tende a sfuttare e ad asservire le coscienze della classe operaia». Più in generale, Sanremo è «uno sfruttamento economico feroce del legittimo diritto della gente alla ricreazione e al divertimento». Firmano l’iniziativa il Pci e il Psiup della provincia di Imperia. I quali aggiungono tra i motivi di contestazione gli effetti deleteri che il Casinò e il turismo di élite producono sulla città, deturpata dalla speculazione edilizia.

È interessante ricordare a questo proposito che il sanremese Italo Calvino, nella sua Speculazione edilizia (1963), ambienta proprio in Riviera la crisi di un giovane intellettuale che si barcamena con difficoltà tra editoria e cinema, ed è costretto a svendere il grande giardino della villa di famiglia per costruirci un palazzone.

Il Controfestival

Il Controfestival attirò una piccola folla di contestatori, ma fu un affare più che altro simbolico. Avrebbe aderito volentieri Sergio Endrigo, minacciato però di squalifica (arriverà poi secondo). Un reparto celere arrivò a presidiare la città in caso di incidenti. Unico vero spettacolo della serata fu la Grande pantomima con pupazzi piccoli e grandi della Collettivo nuova scena di Dario Fo e Franca Rame, una farsa politica con clownerie e tamburi il cui principale personaggio era un pupazzone carnevalesco a forma di televisione, simbolo di tutte le istituzioni, i padroni. Lo spettacolo capovolgeva le regole dell’impresariato tradizionale, ed era sostenuto dal circuito Arci. È in fondo uno degli embrioni della produzione culturale “indipendente” che caratterizzerà tutti gli anni ‘70 e ‘80, anche nella musica. Quella che a Sanremo non ci andrà, manco morta.

«La notte che tutti andarono a cena/ E canticchiarono La vie en rose/ Chi ha ucciso il figlio della portiera/ Che aveva fretta e che non si fermò?». Festival è la canzone con la quale nel 1975 Francesco De Gregori racconta infine il suicidio di Luigi Tenco. Uscita su Bufalo Bill, uno dei dischi più ispirati della sua lunga carriera, trasfigura Sanremo nei giorni del festival in una Nashville altmaniana (il film uscì poco dopo) dove la tragedia va a braccetto con la commedia, i giornalisti e gli uomini della tv non vedono l’ora di far proseguire lo spettacolo.

Luigi Tenco

Tenco a Sanremo morì «come atto di protesta», secondo quanto stava scritto sul biglietto d'addio trovato nella sua stanza dell’hotel Savoy. In tanti non vollero crederci e hanno continuato a indagare su quella morte così enorme rispetto alla leggerezza dello spettacolo.

Ciao amore ciao, l’ultima sua canzone, era passata attraverso innumerevoli stesure, con l’aiuto di Sergio Bardotti e del maestro Giampiero Reverberi: era stato un testo femminista (Il mondo gira), antimilitarista o forse sulla memoria della Resistenza (Li vidi tornare), infine un grido da emigrante al nord. I segni di questo lavorio – forse delle trattative coi discografici e gli organizzatori – affiorarono l’ultima notte. Dalla registrazione audio superstite si sente che Tenco non riesce a star dietro all’orchestra, per i tranquillanti che ha preso dicono, o forse perché ha in testa proprio un’altra canzone, impossibile da cantare in quel posto. Tenco credeva nelle canzoni, nella loro capacità di arrivare alla gente.

Era un «angelo senza spada» per citare ancora la canzone di De Gregori. Il cantautore romano che non è mai andato al Festival neppure come ospite. Uno dei pochi, forse l’unico ormai, “contro” Sanremo.

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