Il progetto dei Mondiali di calcio in Arabia Saudita è rinviato. La rinuncia alla candidatura per l’edizione 2030 ha preso a circolare per il sistema globale dei media nella giornata di giovedì, dopo essere stata lanciata da un sito web greco in lingua inglese, Greek City Times. Un testo che sa tanto di velina, non a caso fatto circolare in uno dei paesi che insieme all’Egitto avrebbero dovuto associarsi alla candidatura saudita, per consentire di aggirare la regola Fifa sull’impossibilità di accogliere i Mondiali in Asia, non prima che siano passate almeno due edizioni dall’ultima ospitata, in Qatar, sei mesi fa. La novità è stata accolta con toni trionfali in Spagna, paese capofila della principale candidatura concorrente, in associazione con Portogallo e Marocco; la terza è sudamericana, con Argentina, Cile, Paraguay e Uruguay.

Secondo la versione fornita dai media spagnoli, la rinuncia saudita sarebbe motivata dalla presa di coscienza che il dossier della candidatura iberica è superiore e molto più avanzate le iniziative diplomatiche. Una versione comoda per tutti ma poco credibile. Più probabile che sulla decisione di abbandonare la corsa abbiano giocato altre considerazioni e pressioni. In attesa di capire quale interpretazione debba darsi al brusco stop di una macchina lanciata in piena corsa, si deve interpretare il senso dell’altrettanto frenetico espansionismo nel mondo del calcio di club, una porzione della generale avanzata nel mondo dello sport e nel vasto campo dell’economia globale dell’intrattenimento. La prospettiva dei Mondiali da ospitare nel 2030, anno che coincide col compimento del progetto strategico nazionale Vision, che negli auspici sauditi dovrebbe veder celebrare a Riyad anche l’Expo, era l’obiettivo principale del grande disegno. Ora che l’obiettivo è stato fatto quanto meno slittare, cosa ne sarà del resto del piano?

Dentro la bolla del calcio saudita

La rassegna quotidiana delle testate saudite consente di scoprire che nel regno la notizia della rinuncia ai Mondiali non è mai arrivata, così come in Qatar non è mai arrivata quella di uno scandalo esploso in Europa e chiamato Qatargate. Quando c’è da edificare bolle narrative, efficaci tanto nel costruire realtà parallele quanto nel garantire impermeabilità dalle verità scomode, nella penisola araba sfoggiano una perizia ineguagliabile. Tocca decodificare gli altri segnali, per capire se il complessivo progetto di sviluppo calcistico saudita subisca dei rallentamenti: l’espansione internazionale condotta attraverso l’acquisizione di club europei e la costruzione di un campionato nazionale che smetta di essere un cimitero degli elefanti, per trasformarsi in una lega di primo livello su scala globale, capace di attrarre calciatori nel pieno della carriera. Viene da dire che si tratta del medesimo piano tracciato da Xi Jinping per la Cina a metà degli Anni Dieci, quando il presidente si era messo in testa di trasformare il paese nella principale potenza calcistica mondiale entro la prima metà del Ventunesimo secolo. Una prospettiva tramontata in due anni scarsi. Non è detto che altrettanto accada in Arabia, dove l’operazione è ancora nella fase iniziale. Sul versante dei club europei, il Newcastle United controllato dal fondo sovrano Public Investment Fund (Pif) continua la scalata. Ha appena guadagnato l’accesso alla Champions League a spese del Liverpool e sul mercato piazza in queste ore l’acquisto di Sandro Tonali dal Milan, spendendo la solita cifra fuori mercato, 70 milioni di euro più bonus. Ma è guardando alla costruzione del campionato che si ricavano le indicazioni più significative.

Quella strana idea di privatizzazione

L’ingaggio di calciatori di prima fascia procede senza sosta. L’ultimo affare è interamente pilotato dal super agente portoghese Jorge Mendes. Rúben Neves è un assistito della sua Gestifute, provenie da uno fra i club più mendesiani in circolazione, i Wolverhampton Wanderers, e finirà all’Al-Hilal, società vicinissima a prendere dal Chelsea anche il difensore Kalidou Koulibaly, ex Napoli. Secondo le indiscrezioni di calciomercato starebbe anche provando a portare in panchina Massimiliano Allegri, l’allenatore della Juventus. Cliente di Mendes è anche uno dei prossimi obiettivi del torneo saudita, Bernardo Silva del Manchester City, mentre un’altra stella in procinto di migrare da quelle parti è l’egiziano Mohamed Salah, del Liverpool. Si è dunque scatenata una frenesia della spesa, che dimostra come l’ingaggio di Cristiano Ronaldo da parte dell’Al-Nassr a fine dicembre 2022 non fosse un caso isolato. La prospettiva di fare della Saudi League una lega concorrente della Premier inglese è molto remota. Lo è meno la prospettiva che da queste parti stiano cercando di costruire una Superlega ispirata al mondiale per club voluto dal presidente della Fifa, Gianni Infantino, grande alleato degli arabi, pronto a partire nel 2025 con una prima edizione negli Usa.

Un altro pezzo rilevante dell’operazione di espansionismo si è avuto col colpo d’acceleratore voluto dal governo, cioè il principe ereditario in persona, Mohammad bin Salman. Sotto l’etichetta di un piano nazionale per lo sviluppo dello sport, il 5 giugno scorso ha deciso che i quattro principali club della Saudi League passano sotto il controllo di Pif. Si tratta di Al-Ittihad, Al-Alhy, Al-Nassr e Al-Hilal. Il fondo sovrano si è annesso il 75 per cento delle quote di ciascuno, mettendo sotto tutela le dirigenze esistenti e gli organismi associativi, che nelle ore scorse hanno formalizzato l’operazione, dando voto positivo ai nuovi assetti di governance, confermando o rinnovando le cariche presidenziali. L’operazione è stata presentata come una privatizzazione, e suona strano, se i club vengono di fatto statalizzati e abbondantemente finanziati dal fondo sovrano. Più che stupirsi o storcere il naso di fronte a un uso del concetto di privatizzazione non conforme alla nostra accezione, servirebbe guardare allo scarto culturale che la semantica fa leggere in filigrana. I quattro club passano da una forma associativa a una forma di società di capitali, seguendo una traiettoria del tutto simile a quella dei club spagnoli e sudamericani che, dovendo fare i conti con le crisi di crescita e le esigenze di capitalizzazione, sono costretti a depotenziare la loro dimensione associativa per prendere la forma giuridica delle società di capitali, con un’apertura agli investitori esterni. Nel caso arabo lo schema è il medesimo – passaggio da associazione sportiva a società di capitali – con due nette differenze. La prima: il mutamento non avviene per sopraggiunta condizione di necessità ma per l’input di una centralizzazione statale. La seconda: l’investitore esterno della società di capitali non ha matrice privata, come nella quasi totalità dei casi sudamericani o spagnoli, ma è un attore statale che attua indirizzi di politica governativa con il suo investimento.

Dal nostro punto di vista si fa fatica a etichettare tutto ciò come privatizzazione, né basta l’apertura alla forma della società di capitali perché privatizzazione sussista. Ma nell’avanzare queste considerazioni, non dobbiamo dimenticare che attuiamo a questa e altre fattispecie la nostra idea di capitalismo. Allo stesso modo in cui perpetuiamo la nostra idea di calcio, mentre mostriamo perplessità al cospetto del big spender saudita. Forse è il caso che cominciamo a rivedere le nostre categorie interpretative, prima di rimanere seppelliti assieme a esse.

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