Era un grande fumettista, e andrà forse a finire che questa ovvietà la diranno in pochi e non risulterà più tale. Allora mi porto avanti io. Non si sa mai. Sergio Staino era un grande fumettista. In una grande e lunga tradizione che, in Italia, hanno portato avanti in pochi. Questo non è un paese di strisce. Di strip. Ma il fumetto, per come lo intendiamo, è nato così. Sui quotidiani americani, con una striscia al giorno, per sei giorni, e una paginona domenicale. In uno spazio che qui, sui nostri giornali, è a dir poco raro. Eppure c'è, nel DNA del fumetto, quella vocazione a usare la realtà, la cronaca, il mondo che ci scorre davanti, proprio come su una striscia, e farne materiale narrativo.

Creare una distanza poetica che distanza, davvero, non è. Anzi, ci permette e, talvolta, obbliga a guardare le cose con una lente d'ingrandimento così potente da farci vedere anche dentro noi stessi. Se poi un autore ci mette l'umorismo, la riflessione diventa ancora più acuta, profonda, interiore. Quelli bravi, quelli molto bravi, riescono farci ridere di noi stessi, esercizio fra i più salutari.

Allora mi vengono in mente, per esempio, Pogo di Walt Kelly, Doonesbury di Gary Trudeau, Bloom County di Berkeley Breathed e, certo, Bobo di Sergio Staino.

Staino ce l'ha fatta, con quel suo personaggio, con quella sua striscia, a raccontare da dentro e da fuori un mondo che cambiava, in diretta. Che cambiava e, insieme, non voleva cambiare. Le trasformazioni, le contraddizioni e le nostalgie di una sinistra che, in quel fumetto, si rispecchiava tutta. Bobo è nato nel 1979, sulle pagine del mensile Linus (giù il cappello, tutti), per poi trasferirsi su settimanali e quotidiani. Mantenendo una continuità che è vitale, per una striscia. Sebbene poi si sia trattato anche di singole vignette o di intere storie.

Bobo era l'uomo di sinistra, che mutava tenendo duro, come una roccia di un fiume dentro la corrente, le correnti. A ricordarci che cosa eravamo, a spiegarci che cosa siamo diventati. A riderne, senza deridere. Una satira leggera, piena di umanità, come era lui, Sergio Staino. Per come mi è sembrato, le troppo poche volte in cui ci siamo incontrati. Una, indimenticabile, al tavolo di un ristorante fiorentino, assieme anche a Sergio Bonelli. Erano amici, naturalmente. Grandi fumettisti, fieri di essere tali. Mi erano parsi simili, ricordo, per una sorta di comune dolcezza, che sarebbe riduttivo chiamare gentilezza.

Quando è nato Bobo, dicevamo, nel 1979, ero un quattordicenne abbonato a Linus. Perché mi piacevano i fumetti. Perché mi piaceva ostentare Linus, nel corridoio della scuola. Ai primi collettivi, alle prime manifestazioni. Roba vecchia, per me nuova. Ridevo di Bobo (e soprattutto di Molotov, per la verità, personaggio preferito della serie), perché era divertente. E allo stesso tempo, più o meno coscientemente, imparavo qualcosa. Capivo.

Capivo qual era l'eredità che mi stavo per caricare sulle spalle, ancora ragazzo, destinato e essere uomo di sinistra per sempre. Quale fatica avrei affrontato. Con che gente mi sarei confrontato. Com'era il mondo, da quel punto di vista. Bobo era un po' padre e un po' fratello maggiore. Non ho mai smesso di volergli bene, anche nei giorni del Leoncavallo in cui, forse, lui non sarebbe entrato, per una questione generazionale.

Sergio Staino era un grande fumettista, con un segno molto personale e riconoscibile. Quei tratti ruvidi, nervosi, istintivi. C'era una spontaneità, in quei disegni, che dava un senso di sincerità, schiettezza, onestà intellettuale. Come molti dei grandi, anche Sergio Staino è stato e resterà inimitabile, in quel segno solo suo. Allo stesso tempo, sarà per sempre un maestro, a cui dovremo guardare quando ci chiediamo che cosa possa essere il fumetto, come e perché farlo.

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