La prima volta che sono volato negli Stati Uniti ero un dottorando. Avevo vinto una borsa di scambio all’università di New York, dove avrei trascorso un semestre in visita. Tra le molte cose che m’incantarono di quella breve ma memorabile stagione newyorkese spicca la sede del dipartimento d’italianistica: una meravigliosa residenza di quattro piani nel cuore del Greenwich Village, donata da una baronessa e trasformata non solo in sede accademica, ma anche in un vivacissimo centro culturale che ha preso il suo nome, la Casa italiana Zerilli-Marimò.

Essendomi laureato all’affollatissima Sapienza di Roma, dove nemmeno i professori più leggendari avevano uno studio tutto per loro e condividevano, con altri cinquanta colleghi, un bagnetto le cui chiavi scintillavano in mano alla segretaria di facoltà come il più autentico segno del potere, a New York mi deliziava il fatto che noialtri studentini del PhD avessimo una grande stanza, nella Casa, solo nostra, con scrivanie, computer, divani e ben due bagni. Di questi due bagni io ne adoperavo solo uno, sempre lo stesso, perché aveva sulla porta l’icona associata al mio sesso.

Era insomma il bagno dei maschi. A un certo punto notai però che i miei colleghi entravano e uscivano invece indifferentemente da qualsiasi delle due porte adiacenti. Mi parve una cosa sconveniente, un’invasione, un fastidio recato alle donne della nostra comunità. A smentirmi arrivò però la rappresentante dei dottorandi, una brillante rinascimentista che ora insegna all’università del New Hampshire. Questa femminista americana, che all’epoca studiava le vedove dell’età della controriforma, mi chiese perplessa: «Scusa Alessandro, ma perché non dovremmo usare tutti il primo bagno che capita? Che differenza c’è tra il bagno “dei maschi” e il bagno “delle femmine”?»

Divisioni arbitrarie

Nei luoghi condivisi indichiamo spesso i bagni con simboli che non ne rappresentano alcuna funzione o specificità, come accade per altri servizi – i telefoni pubblici con le loro cornette, i centri informazioni con le loro graziose “i” corsive, le aree dove si può acquistare o consumare cibo con la coppia di forchetta e coltello disegnati. In luogo, che so, di gocce d’acqua, o di mani insaponate, o della cara vecchia sigla WC, per i bagni tendiamo invece a usare icone che rappresentano chi, sulla base del genere, è autorizzato a farci pipì.

Era quella l’unica differenza tra i due bagni nella stanza dei dottorandi a New York: due diversi omini, entrambi con la testa tonda e senza collo, ma uno con la gonna e l’altro senza. Rispondevo a quel codice imperativo (qui sì, lì no) senza pensare che, come mi fece notare d’improvviso la collega femminista, il codice stesso era l’unica differenza tra i due identici gabinetti: un selettivo imperativo volto a separare gli utenti in due gruppi omogenei distinti, si suppone, dai genitali.

Per farmi capire il punto, la rappresentante sfilò i due cartelli dalle loro guaine trasparenti e li sostituì tra loro. «Ecco» mi disse «quando trovi occupato fai questo, così pisci comunque nel bagno dei maschi».

L’orinatoio

Grosso modo, un bagno è l’unico spazio segregato per genere che si trovi, spesso per legge, in qualsiasi luogo pubblico: l’unico tipo di stanza in cui si possa contare senz’altro di trovarsi solo tra maschi o solo tra femmine in un aeroporto, in una scuola o in un autogrill. È per questo che, dai poemi in prosa di Rimbaud al film sulla biografia di Harvey Milk, i bagni pubblici sono luoghi cruciali dell’immaginario omosociale ed omosessuale – ma anche, come ci insegnano Fonzie e Zerocalcare, il periglioso territorio dominato dai maschi alfa, che proprio lì bullizzano i secchioni o, per citare Sfera Ebbasta, vi spingono qualche compagna e vengono beccati a spingere il fumo.

La distinzione tra questo demanio del maschile e quello identico riservato alle donne sarebbe completamente arbitraria, come l’ho scoperta nel lounge dei dottorandi, se non fosse per un singolo oggetto: una cosa da maschi assolutamente quintessenziale. A New York non c’era, forse perché l’edificio, in origine, era una residenza. Ma in quasi tutti gli altri luoghi pubblici che ho frequentato c’è, ed è l’unica ragione per cui, se uno semplicemente sostituisse tutti i cartelli dei bagni dei maschi con quelli dei bagni delle femmine, lo scherzo non passerebbe inosservato. Mi riferisco a quel tipo di orinatoio che compare solo sui muri dei cessi destinati a chi fa la pipì in piedi. Il vespasiano, chiamato così in onore dell’imperatore che ne tassò l’uso.

Che cosa da maschi misteriosa, l’orinatoio. La sua prima caratteristica essenziale è che, malgrado svolga una funzione che direi intima e solitaria, è pubblico. Non ho mai visto un bagno privato col vespasiano, non credo che se ne trovino all’Ikea o nei cataloghi della vendita di sanitari al dettaglio. A lungo, se ne trovavano invece addirittura sui marciapiedi di molte città europee: all’aperto, davanti a tutti.

C’è una splendida serie di foto di Charles Marville che ritrae quelli iconici della Parigi del diciannovesimo secolo. In una di esse il circolo di orinatoi, nella piazza davanti a un teatro, si raduna attorno a un lampione che promette d’illuminare gli utenti, protetti dagli sguardi di chi passa soltanto da una minima striscia di metallo (forse quaranta centimetri?) all’altezza della vita.

Ma anche nel chiuso dei bagni dei maschi odierni, persino quelli più eleganti e meglio tenuti, gli orinatoi hanno un che di pubblico. E addirittura di collettivo, di relazionale. Voglio dire che non sono, come le tazze, dietro porte che si possano chiudere, né in cubicoli che separino l’utente dagli altri avventori del cesso: formano invece una fila, spesso accanto anche ai lavandini, invitando i maschi a ritrovarsi faccia al muro uno accanto all’altro mentre, estratta la propria virilità dai pantaloni, pisciano spalla a spalla.

In piedi e insieme

L’altra caratteristica essenziale di quest’oggetto che produce il più impacciato e surreale dei riti sociali è appunto che lo si usa in piedi: per questo è nel bagno dei maschi e non in quello delle femmine. Esiste, a dire il vero, una versione pensata per le donne – che del resto, nei bagni pubblici, immagino la facciano tendenzialmente in piedi pure loro, accovacciandosi senza davvero sedersi sulla tazza, nella privata quiete dei loro cubicoli solitari.

Esiste addirittura un tipo di orinatoio disegnato per adattarsi bene a qualunque anatomia, indipendentemente dal sesso assegnato a chi lo usa. Ma queste alternative sono talmente poco comuni che il termine “orinatoio” è generalmente associato alla versione maschile, ubiqua nei bagni pubblici designati dall’omino senza gonna. Gli orinatoi in fila lungo i muri di quei bagni ci dicono dunque questo: che è specifico dei maschi pisciare in piedi, in pubblico, insieme.

Non so se la questione sia igienica, legata all’idea che qualche schizzo sia accettabile per gli sporchi maschi e non per le femmine. O se si tratti dell’antico stereotipo per cui i maschi sono attivi, veloci, efficienti rispetto alle pensose e vaghe femmine, che non gioverebbero della convenienza dei vespasiani. È forse all’opera anche l’idea che la femmina debba essere protetta, mentre il maschio deve vincere il pudore: che ci sia qualcosa di virtuosamente spiccio nel cameratesco sventolio di membri tra estranei che non incrociano gli occhi, ostentatamente disinteressati alle nudità dei loro simili e pronti a sopportarne con virile tenacia le funzioni corporali – con annessi rumori e odori. Che schifo.

Personalmente, devo dire che odio usare gli orinatoi. Preferisco, sin dalle scuole elementari, chiudermi nei cubicoli, con la tazza, anche se c’è la fila — anche se è “da femmina”. Difatti, nell’edificio dell’università dove insegno, preferisco i pur lontani bagni inclusivi, quelli unisex aperti a tutti (e dunque privi di orinatoi) a quello dei maschi di fronte al mio studio, con la sua fila di vespasiani.

Non vedo perché dovrei rischiare di ritrovarmi davanti ad essi a fare la pipì in compagnia di un collega, magari di uno studente, sforzandomi di fare finta che la situazione non sia paradossale. Se proprio dobbiamo pisciare insieme noialtri maschi, in piedi e in pubblico tra di noi, se proprio non possiamo immaginare bagni usabili da chiunque ovunque, vorrei che i nostri orinatoi fossero installati come nella Parigi dell’800: in cerchio.

Oppure in coppie, uno di fronte all’altro. Sarebbero quegli oggetti stessi a frapporsi così tra i nostri vulnerabili corpi e, in questo surreale rituale che ci affratella, ci guarderemmo, almeno, in faccia. Sarebbe più facile ridere della nostra condizione. E, magari, fare conversazione prima di lavarci le mani.

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