Non c’è nulla di più inedito di ciò che è stato pubblicato. È una espressione utilizzata spesso dagli storici per ricordare che certe informazioni sono state già fornite all’opinione pubblica, ma quest’ultima non se ne è accorta. Succede spesso in Italia, forse più che altrove proprio per la presenza di una vasta zona grigia che comprende l’intera area dei media dentro la quale l’eccesso di informazione produce paradossalmente l’effetto contrario.

Il caso del quale ci occupiamo è uno di questi e riguarda indirettamente Enrico Mattei, il presidente dell’Eni morto il 27 ottobre 1962 nei cieli di Bascapè quando l’aereo della compagnia a bordo del quale viaggiava si schiantò al suolo. Le ultime inchieste appurarono che non si trattò di un incidente o del malore del pilota e neanche delle cattive condizioni meteo, bensì di un attentato.

La vicenda riguardante la morte di Mattei, ma soprattutto la sua vita alla testa dapprima dell’Agip e poi dell’Eni verrà esaminata in lungo e in largo in un documentario di Angelo Bozzolini che andrà in onda il 27 ottobre su Rai 3, esattamente sessantuno anni dopo quel giorno.

Ma qui non vogliamo predisporre una sorta di lancio del documentario, bensì parlare di una questione che non verrà toccata per nulla nei novanta minuti del film che si chiude con la morte del presidente dell’Eni.

Fogli sparsi

Prima di entrare nell’argomento, qualche premessa è necessaria. L’archivio storico dell’Eni è uno dei più importanti esistenti in Italia. È stato aperto al pubblico nel 2006 ed è uno dei maggiormente frequentati da studiosi di tutto il mondo. Uno dei più stretti collaboratori di Mattei, Vincenzo Gandolfo, aveva collaborato alla prima fase dell’organizzazione dell’archivio storico.

Ma fu in una seconda fase, sviluppata da archivisti professionisti guidati da chi dirige oggi l’archivio storico Eni, Lucia Nardi, che vennero individuati alcuni fogli sparsi con annotazioni molto importanti, ma per certi versi criptiche.

Nell’archivio storico Eni esiste una cartellina intitolata “Spedizione casse a Matelica 3.8.62” che porta un’annotazione scritta a mano che recita «a Matelica per il sig. Italo». All’interno della cartella si trova un foglio con l’indicazione «casse su cui è stato apposto il disco rosso» seguita da una serie di numeri 12, 13, 14, 15, 16, 23 e 60 che contraddistinguevano queste scatole ritenute evidentemente più importanti delle altre.

Qualcosa lo si capisce in maniera intuitiva. Italo era il fratello di Enrico Mattei e viveva a Matelica, la cittadina marchigiana dove nel 1906 era nato il futuro presidente dell’Eni. Mattei decise dunque nell’estate del 1962 di fare trasferire 60 casse o scatole di documenti nella casa del fratello. Evidentemente riteneva che quel posto fosse più sicuro di qualche ufficio o deposito dentro o presso il grattacielo dell’Eni nel quartiere dell’Eur a Roma.

L’inchiesta di Pavia

La cosa sarebbe potuta finire lì, perché succede spesso che dei documenti si perdano, anche se per perdere 60 scatole occorre un certo impegno. In realtà la vicenda ebbe sviluppi molto importanti nel corso delle indagini condotte dall’allora pm di Pavia Vincenzo Calia, l’ultimo magistrato ad essersi occupato del caso Mattei, ma anche il primo magistrato ad avere concluso il suo lavoro con la convinzione, suffragata da diversi elementi probatori che l’aereo su cui viaggiava Mattei si era schiantato al suolo, provocando la morte di Mattei, del pilota e del giornalista americano, perché era stata piazzata una piccola carica di esplosivo che, nella fase di atterraggio, aveva provocato un’esplosione all’interno dell’aereo.

Calia svolse una serie di indagini ad amplissimo raggio che lo portò, tra l’altro, a interrogare nel gennaio del 1995 Angelo Mattei, figlio di Italo e nipote di Enrico Mattei, a proposito di quell’appunto che Calia stesso aveva trovato prima del 1995 nell’archivio Eni ancora in fase di riorganizzazione. L’interrogatorio di Angelo Mattei aprì scenari per certi versi inquietanti, ma prima di arrivare a tanto occorre tornare a concentrarsi sulla questione delle casse di documenti.

L’uomo dei servizi

Infatti, durante l’interlocuzione con Calia, Angelo Mattei spiegò che le casse dei documenti erano state oggetto di una transazione in denaro tra suo padre Italo e Massimiliano Gritti avvenuta a Matelica nel 1973. Gritti ricopriva allora la carica di presidente di Montefibre, una controllata della Montedison, di cui Eni e Iri erano diventati azionisti di riferimento tra il 1968 e il 1969.

Secondo diverse fonti sia dell’epoca che successive Gritti era un ex agente dei servizi segreti, entrato a far parte dell’inner circle di Eugenio Cefis, nominato vicepresidente dell’Eni pochi giorni dopo la morte di Mattei e dal 1967 passato alla presidenza dell’ente petrolifero di stato.

Lettere ai politici

In quell’interrogatorio, Angelo Mattei riferì al Pm Calia che Gritti si era presentato a Matelica a casa del padre e che gli aveva offerto 100 milioni di lire per le 60 scatole di documenti. Appare evidente dal contesto che chi avesse interesse a recuperare quelle scatole era Cefis.

In effetti tra le scatole con il bollino rosso c’era una corrispondenza con lo stesso Cefis e con le più importanti figure politiche dell’epoca, Fanfani, Faina (presidente della Montecatini prima della fusione con Edison che avrebbe dato vita alla Montedison), Dossetti, Einaudi, Gronchi, Padre Gemelli, La Pira e Vanoni. Interrogato da Calia, Gritti confermò l’essenza della vicenda (le carte vennero trasferite da Matelica a Milano, ma non si sa esattamente dove e da chi vennero custodite o eventualmente distrutte), anche se smentì di avere parlato di denaro con Italo Mattei.

Gritti aggiunse che forse il fratello di Mattei aveva provato a cedere le scatole a Girotti, quando quest’ultimo era diventato presidente dell’Eni dopo che Cefis si era fatto eleggere presidente della Montedison, senza però trovare l’interesse da parte di Girotti.

Bugie e sospetti

Nello stesso interrogatorio Angelo Mattei rilanciò la tesi del padre secondo cui Eugenio Cefis, già stretto collaboratore di Mattei, con il quale aveva anche combattuto nella Resistenza, venne fatto allontanare dall’Eni (dietro la bugia di dimissioni per visioni diverse in campo economico) dopo che il presidente dell’ente di stato lo aveva visto trafficare nella cassaforte dell’ufficio dove teneva i documenti più importanti.

Il biografo di Cefis, Paolo Morando, sminuisce la testimonianza del nipote di Mattei, affermando che neanche Calia gli diede troppo peso. Nulla però ci dice circa la questione delle scatole di documenti. Che fossero stati pagati o meno, partirono da Matelica e arrivarono a Milano presso la sede della Montedison (lo disse Gritti nel suo interrogatorio), dove furono inghiottiti nel nulla.

Documenti spariti

Al di là cioè del modo in cui quei documenti arrivarono nelle mani di Cefis, quello che è certo è che quelle carte, neanche nell’ipotesi di un Cefis trasformatosi in un generoso finanziatore della famiglia Mattei, non vennero mai messe a disposizione dell’Eni, né allora, né più tardi, sia che si trattasse solo di lettere di raccomandazione o di scambi epistolari più importanti per la politica dell’Eni.

Le congetture che si possono fare su questo tardivo interesse per quelle carte (arrivate nell’agosto del 1962 a Matelica e rimaste nella soffitta di casa Mattei per undici anni) sono molte. La prima e più banale è che qualcuno avvertì solo allora Cefis di quel trasloco di documenti.

Enigma Cefis

La famiglia di Italo Mattei sembrava in difficoltà economiche e 100 milioni non si rifiutano a cuor leggero, anche se provengono da qualcuno che per quella famiglia poteva avere avuto qualche interesse nella morte di Mattei.

Cefis, uno degli uomini d’affari più potenti del paese negli anni Settanta, vistosi rifiutare da Enrico Cuccia l’appoggio per un aumento di capitale della Montedison, lasciò tutte le cariche nel 1977 a 56 anni. Come buen retiro scelse Lugano, dove morì nel 2004. La sua vita fu circondata da molti misteri che portò con sé nella tomba e che tali rimangono ancora oggi. Compreso quello delle scatole di documenti di Mattei.

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