Tra le tante evoluzioni a cui stiamo assistendo nella nostra epoca ce n’è una che merita particolare attenzione, se non altro per la sua originalità. È quel curioso fenomeno che vede due fazioni scontrarsi con veemenza in nome di ideali contrapposti, e al contempo declamare gli stessi valori e esibire sul campo gli stessi simboli e gli stessi slogan.

Qualcosa che abbiamo visto di recente in Israele con sostenitori e oppositori del governo che scendono in piazza sventolando la medesima bandiera al grido unanime di “democrazia”, oppure negli Stati Uniti con i sostenitori di Donald Trump contro i suoi accusatori. Contesti in cui ciascuna parte indica l’altra come “sovversiva” e “antidemocratica”, in uno scambio reciproco di accuse che sta diventando caratteristico dei conflitti politici in molte democrazie occidentali. Italia compresa.

La confusione non è certo un tratto nuovo della psicologia umana, ma è probabile che oggi questo fenomeno sia il sintomo di un disturbo più profondo che riguarda le fondamenta stesse della nostra democrazia: più precisamente l’idea di giustizia su cui essa si regge.

Legittimazione

Sappiamo, infatti, che il diritto, come strumento attraverso il quale una società sceglie di governarsi, da solo non basta per “giustificare” il potere: occorre un’etica chiara e radicata che ne sostenga la legittimità nel tempo.

Talvolta questa autoritas superiore è stata incarnata dalle nostre tradizioni («si fa perché si è sempre fatto»), talvolta dalla ragione («si fa perché deve essere fatto»), ma nella storia gli esempi sono i più disparati: la razionalità avvalla il governo della Repubblica di Platone, l’unzione divina è alla base delle monarchie assolute, l’assurda supremazia della razza ariana il caposaldo su cui i nazisti hanno edificato le loro atrocità.

In modo meno brutale, le nostre democrazie hanno trovato la propria legittimazione in un equilibrio tra storia, necessità e aspirazioni collettive, sintetizzandola in Costituzioni che non definiscono solo un patto sociale condiviso, ma delineano soprattutto l’idea di giustizia in cui la comunità intera si riconosce.

Due principi distanti

In passato era usuale definire “sovversivo” chi cercasse di rovesciare il sistema vigente in nome di un’etica contrapposta.

Nella visione aberrante di chi ha piazzato esplosivi o impugnato una P38, la legittimazione del potere non passava dalle urne o dalla libertà di espressione. Se con tale termine oggi ci accusiamo a vicenda è perché ciò che rischia di sgretolarsi non è solo un progetto di governo condiviso, bensì la stessa idea di giustizia che appare ormai scissa in due principi sempre più distanti tra loro.

Da un lato c’è chi ritiene che debba prevalere la volontà collettiva espressa dalla maggioranza attraverso le urne; la nozione stessa di dēmokratía per cui chi è scelto dal popolo ha il compito di promuovere e costruire un preciso progetto di società. Dall’altro c’è chi ritiene che l’etica fondante sia quella determinata dallo spirito egualitario della cultura illuministica, sancita in una Costituzione che ci impegna a fare di tutto per tutelare la libertà e l’autodeterminazione individuale di ciascun cittadino.

Se è giusto che Giorgia Meloni, in quanto vincitrice delle elezioni, si senta legittimata a dichiarare «non disturbare chi vuole fare», è altrettanto giusto poter rispondere «non disturbare chi vuole essere». Il paradosso è che ambedue le affermazioni sono al contempo contestate dalla parte avversa, ma entrambe legittime in base alla nostra idea originaria di giustizia.

Non stupisce dunque la confusione nel constatare come la dialettica democratica abbia finito per contorcersi su sé stessa, polarizzandosi fino al parossismo persino dentro un apparato di idee per loro natura complementari e convergenti. È evidente dunque che il confronto tra le forze politiche debba evolvere a partire da presupposti differenti. Perché se lottare per idee diverse è un buon modo per farle progredire, dividersi su quelle che uniscono finirà per farle involvere.

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