Il Roma Pride 2025 ha sfilato. E assieme ai carri hanno attraversato la città anche le polemiche sulle sponsorizzazioni ricevute dal Pride da parte di aziende che supportano il genocidio del popolo palestinese per mano di Israele. Tra i vari comunicati letti online, ci ha colpito, e vorremmo rispondere all’articolo pubblicato su Domani il 12 giugno e firmato dalla presidente di Famiglie Arcobaleno.

L’articolo in questione in oltre 6700 battute non entra mai nel merito della questione che ha generato indignazione e boicottaggio del Pride, ovvero il genocidio in corso. Non lo nomina neppure. Così come, purtroppo, accade anche in molte realtà della galassia Lgbtqia+ e nei manifesti politici degli ultimi due Roma Pride. Assistiamo da 618 giorni all’annientamento sistematico — e in diretta — di un’intera popolazione: bombardamenti su scuole, ospedali, campi profughi; corpi smembrati di bambinɜ, uomini, donne, medicɜ, giornalistɜ; torture, stupri, la fame usata come arma di guerra, gli aiuti umanitari trasformati in pretesto per attacchi terroristici, armi proibite impiegate illegalmente, la morte del diritto e la progressiva perdita di credibilità delle democrazie occidentali. Di fatto, è la distruzione completa dell’ordine costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale, fondato sui diritti umani, il multilateralismo e le libertà fondamentali.

In questa crisi senza precedenti, che ha fatto saltare ogni regola, crediamo sia importante — anzi, doveroso — interrogarci sul nostro ruolo come persone e organizzazioni queer e Lgbtqia+. E non certo per narcisismo, bensì perché le nostre identità e lotte vengono sbandierate sulle macerie di Gaza dai soldati israeliani. Nel mese del Pride, non ci sembra affatto ozioso o retorico domandarci chi si stia arricchendo con le nostre energie, grida, feste, cultura e con le nostre vite. Cosa e chi legittimiamo con la nostra presenza in certi spazi e contesti? Chi sta usando le nostre battaglie per giustificare progetti colonialisti e di morte? Queste non ci sembrano domande da eludere con sdegno.

Come persone queer e sierocoinvolte che vivono quotidianamente discriminazioni, ingiustizie e marginalizzazione, riconosciamo e empatizziamo con chi è oggetto della stessa oppressione. L’empatia è una qualità umana, certo, ma per chi lotta ogni giorno contro la violenza sistemica — e per chi organizza e anima i Pride — dovrebbe essere una bussola particolarmente sviluppata. In un tempo in cui l’umanità è in crisi, la storia del movimento Lgbtqia+ dovrebbe essere da faro. Abbiamo attraversato gli anni più duri dell’epidemia di Aids e contrastato l’indifferenza omicida dei governi, abbiamo resistito alle terapie di conversione, a secoli di violenze omolesbobitransfobiche, agli omicidi, ai femminicidi, ai transicidi, ai campi di concentramento.

E tutto questo lo affrontiamo ancora oggi. L’opposizione alla violenza e alla disumanizzazione fa parte del nostro Dna politico. Se Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson fossero vive oggi, probabilmente si sarebbero imbarcate sulla Freedom Flotilla. Evocare certi nomi non può diventare solo retorica. Se l’appartenenza è rivendicata soltanto come ricordo, e mai come pratica viva o presa di posizione sul presente, allora quella memoria la stiamo tradendo — e non ci ha insegnato nulla.

Ci colpisce poi, nell’articolo, la presenza di un grande classico retorico: l’appello alla pluralità, la rivendicazione della polifonia dei Pride, il pericolo del “pensiero unico”. Un artificio efficace, ma fuori luogo. Nessuno ha mai voluto ridurre il movimento a una voce sola: associazioni e singolɜ avranno sempre sensibilità politiche diverse.

Ma ciò che sembra mancare da tempo è uno spazio per confronti sinceri e costruttivi. I necessari disaccordi ideologici non vengono affrontati per ciò che sono: per interesse o per fame di egemonia degenerano in faide familistiche, delegittimazioni reciproche, gaslighting e teatrini sterili che ricordano troppo i talk show televisivi. Così, puntualmente, si guarda il dito e non la luna.

Il rispetto dei diritti fondamentali si tiene insieme solo se tutti i diritti vengono garantiti. Anche quello all’autodeterminazione dei popoli. Come può non essere una nostra priorità il fatto che da 618 giorni — o 76 anni, per chi ha memoria più lunga — un’intera popolazione venga sterminata sotto i nostri occhi?

Far parte della comunità queer significa responsabilità, solidarietà e cura reciproca. Non assenza di confronto. Come scrive Sarah Schulman, “il conflitto non è abuso”: nei contesti politici come nelle relazioni personali, dovremmo difenderlo come uno strumento utile e prezioso.

I disaccordi emersi in questo weekend non riguardano solo il Roma Pride, ma il modo in cui gli spazi della comunità vengono modellati — e chi ha il potere di plasmarli. Quando subentrano grandi interessi economici, spesso portano con sé fili invisibili che ci allontanano dai nostri valori.

Spetta a noi riconoscerli, interrogarli e discuterne apertamente, nella consapevolezza che le differenze — anche i contrasti più forti — sono la nostra ricchezza. E il nostro orgoglio.
Questo, forse, è l’unico modo per restare fedeli a ciò che siamo.

© Riproduzione riservata