Ad una buona notizia per ricercatrici e ricercatori – l’approvazione della riforma del pre-ruolo universitario a giugno – ne è subito seguita una cattiva. Sono circa 15mila i posti di lavoro nel settore che l’Italia rischia di perdere se il prossimo Governo non troverà 500 milioni necessari a finanziare quella parte di carriera accademica tra il dottorato e l’assunzione a temo indeterminato in università.

La riforma ha sostituito l’assegno di ricerca, un contratto “finto” della durata di sei mesi o un anno privo di garanzie e mal pagato, con un contratto “vero”, subordinato e di almeno due anni rinnovabili per altri due. Al calvario del precariato voluto dalla legge Gelmini, fatto di almeno dieci anni di intermittenza fra periodi di lavoro sottopagato e talora gratuito, nonché perenne ricattabilità, si sostituisce una carriera post-doc breve e stabile, ispirata al modello europeo, che restituisce a giovani ricercatrici e ricercatori la possibilità di programmare la propria vita, non solo professionale.

Non è tutto oro

C’è naturalmente un costo maggiore soprattutto per lo stato. Ecco perché l’approvazione della riforma ha squarciato il velo di ipocrisia sotto il quale si celava un grande non detto: l’università italiana si fonda su un sistematico sfruttamento legalizzato delle migliori intelligenze del nostro Paese, impegnate a ottenere risultati scientifici di livello internazionale con meno risorse e meno tempo a disposizione rispetto a colleghi/e di altri Paesi avanzati e perennemente costrette a dedicarsi di più a capire come sbarcare il lunario che come contribuire all’innovazione del sistema.

Un esercito di precarie e precari che quotidianamente pubblica, tiene corsi, corregge esami e tesi, organizza seminari, conferenze, workshop, si sobbarca mansioni di project management ed europrogettazione, producendo quella conoscenza necessaria tanto alla coscienza democratica e civile quanto alla sostenibilità economica del pubblico e dei privati. Una categoria che, attualmente, per la sua grandissima parte (quasi 8 su 10) viene espulsa dall’università durante i primi stadi della carriera o, peggio, in età avanzata, quando riconvertirsi sul mercato del lavoro è pressoché impossibile.

La politica non può minimizzare la questione delle condizioni materiali di lavoratrici e lavoratori della ricerca, dei quali d’improvviso torna a parlare, anche e volentieri in campagna elettorale, quando sui media fanno breccia le storie brillanti dei “cervelli in fuga” o quelle toccanti degli affetti da burnout costretti a lasciare l’accademia. In entrambi i casi è evidente il vizio della politica di individualizzare il tema trascurandone le cause sociali strutturali.

Di qui il ruolo fondamentale svolto dalle organizzazioni — come la nostra, Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia (Adi) — che mobilitano e rappresentano lavoratrici e lavoratori delle professioni intellettuali dove si progredisce solo se si trovano forme di sostentamento esterne (welfare familiare, relazionale o lavori aggiuntivi) a causa di salari troppo bassi e diritti mancanti.

Sono condizioni dettate da una scelta della politica di concorrere nelle catene globali del valore puntando sul ribasso dei salari invece che sull’innovazione. In Italia, il possesso del titolo di dottorato viene spesso ignorato nei concorsi pubblici e risulta meno spendibile che all’estero anche nel settore privato, dove gli investimenti in ricerca sono insufficienti e dove spesso il tessuto produttivo non è disposto a pagare un dottore di ricerca più di un laureato triennale.

Elezioni, il momento di parlarne

Sono questi solo alcuni dei nodi che Adi pone al centro della propria azione e sui quali, a più riprese e con numerosi successi, l’associazione si è mossa avanzando proposte migliorative. Un’azione portata a livello di microvertenze per garantire voce e rappresentanza a precarie e precari della ricerca in ciascun ateneo, a livello di trattative istituzionali e infine al livello di battaglia culturale in opposizione all’idea di un sistema universitario d’élite negli accessi e nella possibilità di fare carriera solo se provenienti da situazioni favorevoli in termini di capitale economico e relazionale.

È quest’ultimo un punto fondamentale da ribadire in campagna elettorale: alcuni dei protagonisti dell’attuale dibattito politico non solo non sono sensibili a questi temi, ma sono tra i principali responsabili delle fragilità del sistema accademico e delle profonde faglie di divario che lo attraversano. Perciò ribadire la vitale necessità del rifinanziamento del pre-ruolo si fa, in vista delle elezioni del prossimo 25 settembre, ancora più pressante.

L’8 e 9 ottobre a Roma, poco dopo le elezioni, l’Adi terrà il suo congresso nazionale e porterà avanti alcuni punti fermi: respingere frontalmente ogni tentativo di tagli al comparto, riaffermare la centralità della ricerca come vettore imprescindibile di sviluppo non solo economico, fare argine contro la visione privatistica e aziendalistica dell’università. Le condizioni di lavoro di chi vive nel settore non sono una questione individuale o privata, ma hanno a che fare con il livello di democraticità e sostenibilità che l’Italia – e dunque cittadine e cittadini, anche tramite il voto del 25 settembre – sceglie di avere.

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