Manca poco alle prossime elezioni politiche e stavolta non avremo neanche la luce illusoria della primavera ad accompagnarci in quella che ha tutta l’aria di presentarsi come una giornata difficile. Non sarà aprile, maggio, né tantomeno giugno. Nelle scuole dove verranno allestiti i seggi, studenti e insegnanti avranno fatto il loro ingresso da pochi giorni perché sarà settembre.

Tutto assume l’aura del paradosso, se consideriamo che proprio la scuola è la grande assente delle più gridate tra polemiche e promesse. È curioso come sia semplice ignorare lo stato dell’istituzione a cui è demandata la formazione dell’intero paese. Chiediamoci, allora, non solo: come sta la scuola? Ma anche: fino a che punto gli abitanti della scuola – siano coloro che insegnano o coloro che studiano – conducono esistenze precarie?

La chiamata

Tommaso viene dalla provincia di Venezia e attualmente vive a Treviso. Ha 37 anni e un dottorato in filosofia conseguito dopo una laurea triennale in Conservazione dei beni culturali e una magistrale in Storia delle arti. Nel 2019, terminato il dottorato, era accademicamente a piedi. Poi, a settembre di quell’anno, ha ricevuto la chiamata della scuola.

«Mi hanno proposto una supplenza alle superiori. Si trattava di una cosiddetta Coe (Cattedra orario esterna), cioè con orario spezzato tra più istituti. La mia era tripartita tra un liceo classico e due istituti tecnici a indirizzo turistico, dove avrei insegnato Storia dell’arte».

Tommaso spiega che una proposta di questo tipo in genere arriva perché nessuno la vuole. «E nessuno la vuole perché lavorare con tre apparati diversi, coprendo notevoli distanze chilometriche, è una follia».

È stato tutto molto rapido. Il 22 settembre una mail gli comunica la graduatoria. Quando arriva la graduatoria devi essere tu a calcolare le possibilità effettive di essere chiamato, e se vale la pena di accettare la proposta. «Il tutto» spiega «si traduce nel pregare che gli altri prima di te rifiutino la chiamata affinché tu possa essere confermato sul serio».

Nel suo caso funziona, il 23 settembre una telefonata dice che la supplenza è sua e che deve prendere servizio il giorno seguente. «Fare la spola tra Treviso, Dolo e Chioggia senza un’auto si è rivelato impossibile. Quell’anno sono dunque tornato in via temporanea dai miei genitori, più vicini agli istituti, in attesa di acquistarne una per poter lavorare anche da una distanza maggiore.»

Esiste la burocrazia, e poi esiste tutto il resto. Tommaso aggiunge una nota che mi fa pensare a qualcosa che ho già letto. Dice: «Tutti noi abbiamo esperienza della scuola, e ognuno fa affidamento su quell’esperienza. Per questo tutti noi abbiamo un’idea e un’opinione a riguardo. Poi, quando entri, cambia totalmente la prospettiva.»

La cosa che ho già letto sta in Nessuna scuola mi consola, romanzo di Chiara Valerio su un’insegnante precaria e il suo universo, pubblicato da nottetempo nel 2009 e riedito da Einaudi nel 2021. Nella postfazione all’ultima edizione Chiara Valerio scrive: «Che cosa sia la scuola non lo sa nessuno, ogni scuola è diversa, ogni insegnante è diverso, ogni istituto ha la sua autonomia ed è legato alle possibilità o alla mancanza di possibilità di un territorio; il canone è saltato così come la continuità didattica, e tuttavia ciascuno di noi, esattamente come quando gioca la nazionale di calcio, ha una propria idea e una propria esperienza della scuola – cose, soprattutto l’esperienza, che è più raro avere con la nazionale di calcio. La scuola, anche se ne siamo usciti venti, trenta, cinquanta, settanta anni fa, ci riguarda».

Noterò, in seguito, che tutte le persone contattate per dare un contributo a questo articolo, o le cui parole scritte prenderò in prestito, nomineranno sia il concetto di continuità che le «possibilità o mancanza di possibilità» di un territorio, o di uno specifico percorso di studi. E questo, mi sono convinta una volta di più, è il motivo per cui se vogliamo ragionare di un lavoro è necessario chiamare in causa chi ne fa esperienza.

Cambio di prospettiva

Non di rado la scuola viene interpretata dalla pubblica opinione come un parcheggio per chi non ha trovato un’altra via. Chiedo a Tommaso perché lui abbia deciso di continuare. Dice: «A un certo punto capisci che insegnare ti piace, ti gratifica dal punto di vista personale e ti senti responsabile di questi ragazzi, tant’è che poi, quando sono usciti dalla maturità, a volte ti scrivono per farti sapere come vanno le cose. Poi c’è il piacere intellettuale di continuare a studiare la tua materia, hai una ragione per continuare a leggere libri su quella cosa che ti appassiona e la sfida di renderli appetibili per una platea di adolescenti».

Gli dico sì, ma come la mettiamo con l’antico adagio che vede quello dell’insegnante come un lavoro ben pagato che prevede di lavorare solo alla mattina e avere tre mesi di ferie?

Tommaso dice: «Se hai diciotto ore di cattedra questo significa che quelle sono le ore che spendi in classe con studenti e studentesse. Il lavoro “nascosto” dell’insegnante non viene considerato. È il lavoro che consiste in riunioni di dipartimento, consigli di classe, collegi docenti, e che in fase di dad si era addirittura espanso e moltiplicato. Poi ci sono la preparazione delle lezioni, la correzione dei compiti (in un contesto in cui magari hai duecento studenti, e a me non piacciono le risposte multiple), e la progettazione didattica.

Questa parte non è quantificabile in termini di tempo. Adesso, inoltre, attraverso le piattaforme gli studenti possono contattarti in qualsiasi momento e per qualsiasi cosa. Diventano dei figli che magari ti scrivono alle 23:58, solo che sono duecento, se calcoli una media di una ventina di persone per classe. La scuola, però, appartiene a una dimensione pubblica, e in questa dimensione pubblica tutti a un certo punto hanno deciso di pensare che gli insegnanti sono dei nullafacenti».

Tommaso parla del suo mestiere come ne parlerebbe chiunque abbia la certezza di possederlo. Questa certezza però a tre anni di distanza ancora non esiste, parla di graduatorie e accumulo di punti per scalarle, della frustrazione di trovarsi ogni settembre in attesa di una chiamata che non è certo se arriverà o meno. Parla, inevitabilmente, di concorsi.

Squid Game

Ho un ricordo preciso dei giorni in cui si svolgevano gli scritti del concorso ordinario perché molte amiche e amici vi stavano partecipando. L’atmosfera è stata riassunta in modo eloquente da Margherita che, allora, mi scrisse: «È stato come Squid game».

Margherita ha 33 anni e un dottorato in italianistica, quello del settembre corrente è il suo terzo anno effettivo di supplenze. «Dal punto di vista del conteggio sarebbe il quarto, perché lo scorso anno ho chiesto un anno di aspettativa non retribuito per sostenere il secondo anno di assegno di ricerca e accumulare punti.»

Racconta di aver paragonato il concorso alla celebre serie coreana, che vede i protagonisti costretti a partecipare a un reality fatto di cruente lotte all’ultimo sangue, a causa delle modalità comunicative del ministero e a quelle di espletamento delle prove.

«Ci siamo iscritti nel 2020, ma siamo stati chiamati per il concorso solo nel 2022 e con un preavviso di tre settimane. È un tempo breve per prepararsi adeguatamente. La prova era a crocette e solo per Storia comprendeva una preparazione dalle origini dell’umanità fino crollo delle Torri Gemelle. Questo getterebbe nello sconforto chiunque. Il giorno della prova ti chiudono in una stanza dove ti danno una penna per firmare, ma non un foglio, perché non puoi segnarti niente. Io ho finito in 25 minuti, mi pare che a disposizione ce ne fossero 100, ma dovevo rimanere lì fino al loro scadere senza poter uscire. So che sembra una stupidaggine, perché si sa che i concorsi funzionano così, ma l’impressione era che volessero portarci allo stremo delle forze, che fin da subito la modalità a quiz e lo scarso preavviso fossero un modo per demoralizzarci. A me è andata bene, ma la selezione è stata spietata. Ho visto persone in lacrime o quasi perché questa opportunità era andata persa. Persone con più di 40 anni che hanno fatto diplomare molti studenti e hanno già una carriera nella scuola, per quanto precaria. Mi ha fatto pensare a come degli insegnanti, che da anni crescono i figli degli altri, vengano giudicati sulla base del fatto che non ricordano la data di una battaglia».

Ne rimarrà solo uno

Tommaso è un patito dei riferimenti anni ‘80, quindi per descrivere il concorso preferisce evocare l’immagine di «highlander, ne rimarrà uno solo».

«Per la mia classe ci sono due o tre posti in tutta la regione Veneto. I partecipanti erano tra i sette e gli ottocento. Con questi numeri le possibilità di entrare in cattedra sono ovviamente molto ridotte, dunque speri di ottenere almeno l’abilitazione all’insegnamento. Questa non ti permette di diventare di ruolo, ma almeno cambi fascia e ottieni la certezza dell’insegnamento nella tua materia e possibilità molto maggiori di supplenze lunghe».

Tommaso spiega che per Storia dell’arte sono state raggruppate le sei regioni del nord Italia, dando così esito a un concorso con 4.000 partecipanti. «Dopo la prima fase siamo rimasti in 370. Dovremo fare l’orale a Monza, ma per quanto mi riguarda non so quando accadrà. Ad aprile hanno estratto la lettera B, a giugno si sono fermati sulla lettera C. Ora siamo in attesa dei nuovi calendari, so solo che avrò tre settimane di preavviso».

Quando tocca il tema delle graduatorie, Margherita, dice che la questione è delicata anche perché in alcune regioni è più semplice accedere a supplenze, anche annuali, con punteggi da neolaureati. In altre è difficilissimo perché c’è troppa offerta di insegnanti.

L’usura dell’insegnante

«Quindici giorni fa è arrivata la mail in piena notte, le due, due e un quarto. Io ero davanti al monitor perché sui forum girava questa voce che dopo l’una sarebbero partite le mail del ministero, io però a un certo punto me n’ero dimenticato, pensavo fosse una di quelle ondate di isterismo che attraversano i siti frequentati dagli aspiranti docenti: c’è sempre qualcuno che si fa prendere dal panico per una norma o una comunicazione e in un attimo si scatena il putiferio. Invece dopo le due di notte è arrivata per davvero questa mail che diceva: “sede: TR”».

Nel 2016 l’insegnante e scrittore siracusano Mario Fillioley ha pubblicato per minimum fax il romanzo da cui è tratto questo incipit. Si intitola Lotta di classe. Diario di un anno da insegnante in prova. Essere un insegnante in prova significa essere vicinissimi alla meta, che tutto è andato per il meglio e che se arrivi in fondo a quell’anno avrai la cattedra.

Fillioley è del 1973, da un punto di vista anagrafico indica di aver verosimilmente partecipato al precedente concorso e, nella migliore delle ipotesi, essere rientrati nella tornata di assunzioni 2015/2016. Infatti, quando lo contatto per chiedergli un contributo, la prima cosa che facciamo è dibattere brevemente perché lui teme che non possa essere utile.

Invece io credo di sì. Perché Lotta di classe – seppure in modo ironico, leggero, divertente – racconta che anche se la tua storia ha un lieto fine, in alcune regioni prima di raggiungerlo puoi finire a 1.000 e più km di distanza da casa. Racconta pure che se un insegnante in prova lavora in una scuola media per un anno, e l’anno successivo lo sostituisce un’altra insegnante in prova, e quelli ancora successivi la catena si ripete, allora la continuità didattica non esiste.

Fillioley a riguardo dice: «Il sistema del reclutamento insegnanti nella scuola è precario di una precarietà sui generis: si basa su insegnanti, o aspiranti tali, giovani e meridionali, i quali sono sempre ben disposti a un periodo più o meno lungo di lontananza da casa e sacrifici al limite dell’inutile (capita che si consideri la cattedra un “investimento”: se puoi permetterti di vivere in Lombardia o altre zone carissime per qualche anno, supportato dalla famiglia, hai la prospettiva di tornare al sud e fare diventare il tuo stipendio una voce in entrata anziché in uscita), a patto di poter rientrare quando saranno maturi/anziani/vecchi. Questo comporta una cosa che credo sia abbastanza sottovalutata: l’insegnante si usura facilmente, un insegnante giovane rende molto meglio – vuoi anche per ingenuità – di uno vecchio. Ma in questo modo ad avere gli insegnanti giovani sono sempre le scuole del nord, mentre al sud ritornano quelli usurati o a fine carriera. In alternativa, il precariato si svolge tutto al sud, e questo significa che l’insegnante è giovane, ma cambia scuola e provincia e cattedra ogni mese, oppure ogni anno. Continuità didattica addio».

Selezione sociale

«I lavori massacranti esistono perché i pesi e i compiti non sono equamente distribuiti» diceva Enzo Del Re (1944 – 2011) alla fine della canzone Lavorare con lentezza. Era il 1974 e, in tempi in cui l’agenda etica viene dettata dagli alfieri del consumo, suonano datate. Credo però che non lo siano affatto. Credo anzi che potremmo fare un passo oltre – non rispetto a Enzo Del Re, ma insieme a Enzo Del Re – aggiungendo: i lavori massacranti esistono e sono specifico appannaggio di classi sociali che non possono modificare il proprio stato neanche attraverso il passaggio generazionale perché le opportunità e le competenze non sono equamente distribuite.

Sia Margherita che Tommaso hanno avuto supplenze in istituti professionali o tecnici.

«L’incontro con il mondo professionale» racconta Margherita «per me è stato l’incontro con l’alterità totale. Il primo giorno, nella quinta di Assistenza e manutenzione meccanica, ho trovato una classe di soli uomini tutti attorno ai 20 anni. Tutti avevano una storia scolastica abbastanza incidentata e non avevano mai letto un libro per intero, o perlomeno non negli ultimi 10 anni. Mi sono chiesta perché non ne avessero mai letto uno nemmeno a scuola. Erano abituati a insegnanti che dettavano alcuni concetti fondamentali, chiedendo poi di riportarli in sede di verifica. Queste persone, anche a causa del Covid, ma non solo, non erano mai state in gita. Non avevano mai visto un posto diverso da casa a parte una città limitrofa. Questi ragazzi – in un istituto trattato come ultima spiaggia, trattati loro stessi come studenti su cui non vale la pena investire –  venivano da famiglie socio economicamente svantaggiate e dimostravano chiaramente che le classi sociali esistono ancora. Seguivo anche una classe terza, prevalentemente di ragazze, a indirizzo Sociosanitario. Lì una studentessa pachistana doveva recuperare italiano e storia. Era bizzarro, perché con il Covid i debiti erano stati sanati affinché potessero essere recuperati l’anno dopo. Parlandole ho compreso che non conosceva l’italiano abbastanza da poter leggere e comprendere un capitolo, ma era arrivata in terza senza che nessuno si prendesse la briga di preparare un piano personalizzato. Da lì si è aperta una grande questione linguistica, perché ho capito che in un contesto con altissima presenza di studenti stranieri non esisteva un corso di italiano L2 (ovvero italiano come seconda lingua, in un ambiente in cui questa rappresenta il principale canale di comunicazione). Alla fine lo hanno fatto preparare a me, che non ho le competenze e la certificazione di insegnamento dell’italiano L2. Ho avuto colleghi eccezionali, ma anche l’avvilente impressione che queste siano scuole di serie B, dove sei abbandonato a te stesso e alla sensibilità degli insegnanti che hai di fronte».

Nonostante il successivo percorso umanistico, Tommaso alle superiori ha frequentato un istituto tecnico (indirizzo elettronica e telecomunicazioni), e rispetto al trattamento riservato ai diversi percorsi di studio in Italia, ha idee cristalline.

«Credo che il classismo nella scuola italiana si sviluppi principalmente su due direttrici. La prima è che resiste ancora l’idea che la classe dirigente debba formarsi al liceo classico, al massimo allo scientifico. La seconda è l’idea molto ben radicata di una gerarchia scolastica che si sviluppa in base alla presunta difficoltà della scuola. Classico e scientifico sono i più difficili, poi seguono i tecnici, poi i professionale e così via. Quest’idea è sbagliata perché ogni scuola dovrebbe presentare lo stesso grado di difficoltà e l’alunno dovrebbe decidere l’indirizzo adatto a lui in base a attitudini, sensibilità e interessi. Viviamo in un contesto in cui le scuole diverse dai licei sono strutturate in modo da ricevere la massa degli studenti considerati meno studiosi. Questo alimenta una incredibile sacca di frustrazione sia per gli insegnanti che per gli alunni. Bisognerebbe interrompere questa catena. Ogni scuola fornisce un tipo di preparazione peculiare. Questo significa che studiare la meccanica, che non è altro che fisica applicata, dovrebbe essere considerato complesso tanto quanto fare una versione di greco, fine».

Domani interrogo

«D’inverno, spesso i ragazzi si portano da casa le coperte perché i termosifoni sono rotti, e diventano bozzoli di pile da cui spuntano teste giudicanti e caviglie nude tra jeans e fantasmini. La scuola è il regno del paradosso perché tra i bozzoli c’è chi, anche d’inverno, indossa magliette a maniche corte e sbuffa perché ha caldo. Le aule sono fatiscenti, si tengono su come possono, ed è difficile credere, ogni anno, che saranno ancora in grado di accogliere». 

Penso a queste righe, mentre Tommaso racconta dei ragazzi che ti scrivono a ogni ora del giorno e della notte, o Margherita di come ha elaborato un programma personalizzato per chi era stato lasciato indietro. Sono tratte da un romanzo che è un grande dono. Lo ha scritto Gaja Cenciarelli (scrittrice, traduttrice, insegnante di lingua e letteratura inglese) e lo ha pubblicato Marsilio, si intitola Domani interrogo.

È uscito proprio questo settembre e la sua protagonista è la scuola nel senso più globale: mura che racchiudono esseri umani impegnati a trascorrere insieme un’incredibile quantità di tempo e a vivere altrettante esperienze (tra cui crescere, farsi del bene, farsi del male).

Il punto di vista è quello di un’insegnante precaria il cui grande amore è un’intera quinta superiore, furente di vita, in una scuola della periferia romana. Ragazze e i ragazzi di cui scrive: «È una generazione di fragili quella che si trova davanti ogni giorno, sia fisicamente che emotivamente». Ragazze e ragazzi a cui scrive: «L’unica occasione che avete è la scuola. Senza il diploma resterete per sempre manovalanza».

Presente e futuro

In attesa della calendarizzazione dell’orale, quest’anno Tommaso non sta insegnando Storia dell’arte. Si sta occupando di sostegno. «L’ho fatto anche l’anno scorso. Dopo due anni che insegni la tua materia pensi di avercela fatta, ma non è così. Negli anni sono cambiate le modalità di reclutamento, dunque ci sono delle graduatorie incrociate in cui sono presenti tutti gli insegnanti di tutte le classi di concorso.

Da queste vengono estratti i precari per il sostegno. Non sei obbligato a essere inserito nelle graduatorie incrociate, ma rifiutarle comporta il rischio troppo alto di non essere chiamato. Tu puoi con tutta la buona volontà formarti autonomamente per offrire il miglior sostegno possibile agli studenti che hai in carico, ma spesso non basta. Questa è una grande mancanza di rispetto nei confronti sia degli alunni che delle famiglie che hanno bisogno di un percorso specifico, troppo spesso lasciato a persone senza competenze».

Margherita, nei giorni in cui parliamo, è soprattutto in attesa di riuscire a contattare un sindacato. «Mi trovo in una fase di stallo tra concorso ordinario e concorso straordinario, ho ottime probabilità di raggiungere l’anno di prova dell’ordinario, ma nessuna certezza. Quindi sto cercando da due settimane di contattare un sindacato qualsiasi, letteralmente tutti quelli della città, ma non mi risponde nessuno. Molti hanno proprio la linea staccata. Comunque, se dovessi decidere di portare avanti l’ordinario e rinunciare allo straordinario, e se dovesse andare tutto bene, allora per il concorso a cui mi sono iscritta nel 2020 inizierei l’anno di prova nel settembre del 2023.»

Che Margherita e Tommaso arrivino a ottenere la cattedra nelle proprie materie, è ciò che voglio sperare e credere. Se veramente nel 2023 li troveremo pronti a prendere servizio da insegnanti di ruolo, quello che avremo davanti saranno due persone non più precarie.

Purtroppo, un singolo individuo non più precario non cambierà mai il fatto che l’intero sistema lo sia. E l’intero sistema non è precario solo perché non garantisce tutele a una quantità non trascurabile di personale, lo è perché getta le basi della precarizzazione dell’esistenza fin dall’età della formazione.

Chiedo a Tommaso cosa ne pensa e Tommaso dice: «Io quando avevo la loro età pensavo che il futuro potesse essere bello, in qualche modo. Pieno di sorprese e di cose. Per la maggior parte delle ragazze e dei ragazzi che hanno diciannove anni non sono sicuro che sia così, tutto qua».

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