«Il caso di Igor Squeo ne richiama altri del passato, casi che sembravano chiusi e che invece hanno portato alla luce violenze delle forze dell’ordine», dice il sociologo di A buon diritto
Al fianco della famiglia Squeo, a sostenere la battaglia per la verità, c’è l’associazione A buon diritto. Il presidente è Luigi Manconi, che a Domani spiega le anomalie della morte di Squeo, che sono sovrapponibili a quelle emerse in tanti altri casi simili.
Le lesioni sul corpo di Igor Squeo aprono diversi interrogativi sul suo decesso. Lei che idea si è fatto al riguardo?
Questa storia richiama vicende del passato, casi che inizialmente sembravano oscuri e suscitavano giusto qualche perplessità fino a che sono venute allo scoperto violenze da parte delle forze dell’ordine.
Non ho certezze, ma ritengo che come accadde in casi come quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi le pieghe non visibili di questa vicenda, le contraddizioni, le circostanze non approfondite sono tali da richiedere un ulteriore e più profondo accertamento dei fatti. Sembra invece che si stia andando nella direzione opposta, quella dell’archiviazione. Mi auguro che questo non accada e credo che si possa ancora lavorare per evitarlo.
La famiglia ha deciso di pubblicare le foto del corpo di Igor dopo che per oltre tre anni si è sentita abbandonata dalle istituzioni. Perché è così difficile portare avanti queste battaglie?
La pubblicazione dei volti sfigurati e dei corpi martoriati – nonostante tutto il dolore che provoca nei famigliari e negli amici – è stato un passaggio determinante in passato per far sì che le indagini andassero nella giusta direzione. Ricordo bene quanta fatica e sofferenza costò ai familiari di Cucchi e a quanti li sostenevano la decisione di pubblicare le foto del giovane nell’obitorio.
Tutto questo dimostra come sia vischiosa la situazione ambientale, quanto siano diffusi la diffidenza e il sospetto, quanto sia forte la reticenza ogni volta che si è davanti a vittime costituite da persone comuni e a possibili carnefici appartenenti alle forze dell’ordine. Domina tuttora un equivoco letale, ovvero che raggiungere la verità su vicende che vedono coinvolti apparati dello Stato non sia un contributo fondamentale alla trasparenza di questi stessi apparati e alla loro democratizzazione, ma un attentato alla loro compattezza e alla loro reputazione.
Accertare la verità sui presunti responsabili di crimini all’interno delle forze dell’ordine è fondamentale per salvare l’onore dei tanti che i crimini non li commettono.
In Italia le morti durante un intervento delle forze dell’ordine sono frequenti. Com’è possibile?
Nel marzo 2014 a Firenze, durante un’operazione dei carabinieri in strada, morì Riccardo Magherini. Questo avvenne a seguito di un fermo effettuato secondo quella modalità che io di recente ho chiamato la “tecnica Floyd”, quella che portò alla morte di George Floyd a Minnesota e di cui oggi stiamo parlando per il caso di Igor Squeo.
Due mesi prima della morte di Magherini il comando generale dei Carabinieri aveva inviato una circolare da pubblicare in tutte le caserme italiane dove si sosteneva la necessità di rinunciare a quel tipo di tecnica di fermo perché ritenuta potenzialmente mortale. Il comando generale dei Carabinieri era insomma consapevole di quanto la “tecnica Floyd” fosse pericolosa, anche perché ai tempi erano già morte altre persone in questo modo.
Penso a Riccardo Rasman nel 2006, durante un intervento di polizia in casa sua a Trieste. Una volta che avvenne la morte di Magherini, proprio con la medesima modalità che quella circolare dei Carabinieri chiedeva di evitare, la circolare venne cancellata. Questo segnala bene a quale tipo di contraddizione siano sottoposti gli appartenenti delle forze dell’ordine, scarsamente e malamente preparati anche sotto il profilo tecnico e con una conoscenza parziale degli effetti della loro attività durante le operazioni di fermo.
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