Il 2013 di Beppe Grillo, il 2014 di Matteo Renzi, il 2018 di Luigi Di Maio, il 2019 di Matteo Salvini. Avanti un altro, anzi, un'altra. Tocca a Giorgia Meloni, in questo anno 2022. A suggello di un decennio in cui l'elettorato italiano ha votato in massa i leader del nuovo, ha dato fiducia a chi chiedeva il cambiamento, salvo restare delusi in modo rapido e passare all'offerta successiva.

Un ottovolante cominciato dieci anni fa, di questi tempi, quando stava per scadere la XVI legislatura 2008-2013, inaugurata con il trionfo di Silvio Berlusconi e conclusa con il governo del tecnico Mario Monti. È in quell'autunno-inverno 2012 che si riscaldano e poi scendono in campo le ipotesi politiche che terranno banco nel decennio successivo.

La camicia di Renzi

25/09/2012 Roma, campagna elettorale per le primarie del Partito Democratico, comizio di Matteo Renzi

«Noi siamo quelli che hanno l’ambizione di governare l’Italia per i prossimi venticinque anni». È la mattina del 13 settembre 2012, dal palco dell’auditorium del palazzo della Gran Guardia nella magnifica Piazza Bra di Verona il sindaco di Firenze Matteo Renzi lancia la sfida a Pier Luigi Bersani, si candida alle primarie per scegliere il candidato premier del centrosinistra.

Settanta minuti di discorso, la camicia bianca con le maniche arrotolate e la cravatta scura, stile Barack Obama che sta per essere riconfermato presidente Usa, i colori rosso e blu del logo con il punto esclamativo di “Adesso!”. I manifesti con il nome del candidato distribuiti un’ora prima e sventolati a favore di telecamere. Matteo racconta di aver scelto Verona per iniziare perché fu qui, nel 1315, che Dante rifiutò il patto che gli offrivano i notabili fiorentini: torna a casa dall’esilio in cambio di una confessione di colpa.

«Anche a me ora dicono: lascia perdere, chi te lo fa fare? Hai 37 anni, aspetta il tuo turno. Ma ora tocca a noi. Noi non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno per correre. Noi siamo quelli che non devono portare la giustificazione: quando loro erano già in Parlamento noi eravamo all’asilo... Se passiamo il compasso da questa parte ci sono i 25 anni che abbiamo vissuto. Noi siamo l’altro raggio del compasso: i prossimi 25 anni, il futuro».

In sala c'è un solo volto noto, il sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci Graziano Delrio. E tanti volti sconosciuti, volti da Italia normale, un'Italia periferica e un po’ incazzata. La stessa che nelle stesse settimane affolla i comizi siciliani di Beppe Grillo.

Si vota per le elezioni regionali, il 9 ottobre il comico attraversa a nuoto lo Stretto, un'ora di bracciate per tre chilometri, il 28 ottobre il Movimento 5 Stelle dal nulla diventa il partito più votato dell'isola.

Il 16 dicembre all'auditorium della Conciliazione a Roma si apre un'altra convention. Sul palco ci sono tre violincellisti, sullo schermo passano le immagini di Falcone e di Borsellino, di Gianfranco Fini con il capo del Movimento sociale Giorgio Almirante di Federico II e Napoleone, D'Annunzio e don Luigi Sturzo, Evita Peron e Madre Teresa. Sul palco spunta una donna minuta affiancata da un omone, sono Giorgia Meloni e Guido Crosetto. È l'atto di nascita di Fratelli d'Italia.

L’ora del Vaffa

02/03/2018 Roma, chiusura della campagna elettorale del Movimento 5 Stelle M5S. Nella foto Virginia Raggi e Beppe Grillo

Le nuove avventure politiche sono segnate da due eventi epocali, uno nazionale e uno globale. La fine del berlusconismo, che spinge i popoli divisi dal muro di B., pro o contro il Cavaliere, a rimescolarsi, creando nuove famiglie elettorali. E l'onda lunga della recessione che impoverisce il ceto medio, in Occidente, in Europa e in Italia: benzina nel motore per i populisti.

È il contesto in cui le parole d'ordine del Vaffa ai politici e della rottamazione si confondono in unico messaggio: la rivalità tra i nuovi arrivati sullo scaffale del supermercato elettorale nasce dalla loro somiglianza. In quei mesi, più che ai leader sul palco, bisogna puntare lo sguardo sulle platee che li seguono con curiosità e a volte con partecipazione.

Nella selezione di questi dieci anni il nuovo ha preso le forme del comico che voleva spedire tutti a casa e poi del giovane sindaco di Firenze che prometteva la rottamazione e la riscrittura della Costituzione.

Nel 2018 il voto al Movimento 5 Stelle è stato impersonale e anonimo, anche se era chiamato a intercettarlo il trentenne capo politico Luigi Di Maio, oggi tornato amaramente giù dal proscenio.

Nel 2019 il nuovo leader sembrava Matteo Salvini. Anche lui portava in dote la sua buona dose di novità: via la Padania, dentro l'Italia, l'esportazione della parola d'ordine trumpiana prima gli italiani.

Sono finiti tutti male, la selezione è stata rapidissima. Meteore nate e precipitate in pochissimo tempo. Colpa di un elettorato volubile, come sembra voler dire Carlo Calenda quando attacca la dinamica che porta a scegliere come nel «televoto del Grande Fratello»? O demerito di una offerta politica che si maschera da nuovo, ma non sa restituire agli elettori nulla di quanto promesso? Un’offerta politica che non è la costruzione di una casa, ma ruota sulle logiche dello spettacolo, che oggi c’è e domani chissà. Sempre destinata a deludere.

Meloni renziana

Giorgia Meloni è l'ultima esponente di questa serie e presenta numerose differenze dai predecessori. Guida un partito con dieci anni di vita che affonda le radici nella storia del vecchio Movimento sociale italiano, erede di Salò e polo escluso della Prima Repubblica, e di Alleanza nazionale. Il suo è un professionismo: una politica in carriera che mai ha immaginato di fare altro nella vita.

Leader dell'organizzazione giovanile, consigliera provinciale a 21 anni, deputata e vice-presidente della Camera a 29, ministra a 31, leader di partito a 35, premier in pectore e presidente del partito più votato a 45.

Non ha avuto bisogno di pronunciare la parola d'ordine del cambiamento, perché stava nella più paludata delle posizioni parlamentari, l'opposizione: il principale partito di opposizione, come diceva di Fratelli d'Italia il premier Mario Draghi. E non ha bisogno di cavalcare le novità, di raccontare il suo come un percorso senza precedenti, perché il suo essere donna e donna di destra rappresenta da solo una radicale cesura.

In questa serie il leader che più le assomiglia non è Salvini, ma l'altro Matteo, Renzi, che chiedeva agli italiani una fiducia sulla sua persona.

Il vaffa di Grillo e il voto al movimento Cinque Stelle era invece un sentimento collettivo. In comune, tutti, hanno avuto l'ambizione di disegnarsi come partito della Nazione: interclassista, senza roccaforti territoriali, con un programma che si riassume nella figura del leader. Un partito friabile: dal 40 per cento al dimezzamento di voti è stato un attimo per Renzi, lo stesso per Salvini, dal 34 per cento di tre anni fa al crollo sotto la soglia del 10 di domenica.Cinque Stelle che cantano vittoria hanno preso la metà dei voti del 2018, per Di Maio il paragone sarebbe ancora più impietoso.

Per Meloni l'ascensore elettorale è andato nella maniera opposta, tutto in salita. Fino a quando comincerà la discesa, che consiglia la prudenza emersa l'altra sera, al momento della proclamazione della vittoria, quando Meloni è salita sul podietto dell'hotel Parco dei principi.

Nello stesso albergo, quattro anni e mezzo fa, Di Maio si era fatto riprendere in un tripudio di abbracci. Renzi fu capace di avvisare i giornalisti dell'avvenuta formazione del suo governo con un tweet («arrivo, arrivo!») spedito dallo studio del presidente della Repubblica.

La leader spaventata

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 26-09-2022 Roma (Italia) Politica Elezioni - Sala stampa di Fratelli d’Italia Nella foto Giorgia Meloni 26-09-2022 Rome (Italy) Politics Political elections - Press room of Brothers of Italy party In the pic Giorgia Meloni

Nella notte tra il 25 e il 26 settembre, invece, è apparsa una leader tutt'altro che trionfale, quasi spaventata per le dimensioni di una vittoria che consegna una grande «responsabilità». Una leader che nel momento di uscire dai propri confini per parlare all'intero Paese rivendica la sua identità tradizionale, che è il suo punto di forza ma anche un recinto. Una leader chiamata a contenere anche la tentazione di occupare tutto che agita le sue truppe, da tempo fuori dal potere. Una strategia di contenimento degli entusiasmi e delle passioni che può rivelare una grande sicurezza o al contrario una certa preoccupazione.

Una preoccupazione legittima, che nei prossimi giorni può trasformarsi in debolezza. Quando Salvini chiederà di essere «protagonista» della formazione del nuovo governo, come ha detto ieri. Quando Berlusconi rivendicherà per sé il ruolo di regista. Quando nel partito cresceranno gli appetiti.

Non è la forza dei vincitori il problema del sistema politico negli ultimi anni, ma la loro fragilità, la loro capacità di vincere le elezioni e di perdere il governo, la difficile tenuta nervosa dei leader che sono sempre in bilico tra la sensazione di onnipotenza e la caduta. Di un sistema politico normale fa parte la chiusura dell'ottovolante e la costruzione di soggetti politici radicati, non più sottoposti agli umori del momento, e un sistema istituzionale solido.

L'ottovolante elettorale si ferma, per ora, su Giorgia Meloni. Perché il Vaffa si è spento, la rottamazione è un mito del passato, l'elettorato non chiede più i dilettanti al governo, ma i professionisti. Meloni ha un'esperienza importante di partito, ma non altrettanto si può dire del suo passato di governo.

E una donna di radici e di identità come lei è chiamata ad affrontare il nemico più insidioso e imprevedibile: essere stata scelta come offerta alla moda. Il trionfo effimero che ha condannato tutti i nuovi degli ultimi dieci anni di politica italiana.

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