Carlo Calenda continua a tenere sulle spine il Pd e il resto della possibile coalizione di centrosinistra. Alle prossime elezioni Azione potrebbe correre da sola, non è chiaro se insieme a +Europa, visto che Emma Bonino vorrebbe l’intesa con i democratici. Calenda ha posto una serie di condizioni: nessuna candidatura nei collegi uninominali per Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli e Luigi Di Maio, e la definizione di «una base di programma comune». Chi lo conosce non può restare sorpreso. In quasi un decennio si è spesso avvicinato al Pd, ma alla fine ha sempre preferito giocare da prima punta. La vita da mediano non gli si addice.

Nel Pd, ma anche no

La prima volta è accaduto nel 2015. Calenda è viceministro dello Sviluppo economico nel governo Renzi. Il suo partito, Scelta civica, è in grosse difficoltà. Matteo Renzi ha appena ottenuto una storica vittoria alle elezioni europee e il Pd è una forza attrattiva irresistibile per i centristi liberali. A febbraio, Calenda e altri sette esponenti del partito, tra cui Andrea Romano e Irene Tinagli, annunciano la loro uscita da Scelta Civica e l’entrata nel Pd. «La quasi totalità dei nostri elettori ha scelto di credere nel progetto riformista di Matteo Renzi», spiega Calenda in una lettera al Messaggero.

Quello stesso anno parteciperà alla Leopolda di Renzi, l’anno successivo sarà nominato ministro dello Sviluppo economico e nella lunga campagna referendaria sosterrà convintamente il sì alla riforma costituzionale. Ma della sua intenzione di entrare nel Pd si perdono le tracce. Calenda non prende la tessera, né inizia a fare vita di partito.

La tentazione di correre

La verità è che a Calenda sta stretto il ruolo di portatore d’acqua in un Pd guidato con mano più che ferma. Tornerà alla carica soltanto nel 2017, quando il mondo è cambiato. Renzi ha perso il referendum e ha lasciato il governo. In Francia, Emmanuel Macron ha vinto le elezioni spazzando via i socialisti.Il Pd sembra destinato alla stessa sorte e per un leader ambizioso sembra che si aprano intere finestre.

All’assemblea di Confindustria del 24 maggio 2017, Calenda fa un discorso che è un vero e proprio programma nazionale, con tanto di proposta di legge elettorale maggioritaria. Il Foglio, quotidiano sempre attento alle evoluzioni nella galassia del centrismo pro business, commenta: «Può piacere o no, ma al governo c’è un leader in marcia che ha trovato un suo pubblico».

Per tutto il 2017 e l’inizio del 2018 la sua attività si fa sempre più intensa. Scopre il social network Twitter e ne diviene presto una star, grazia al suo linguaggio semplice e diretto e alla sua disponibilità a rispondere anche a persone comuni.

I giornali gli attribuiscono ogni sorta di intenzioni: da quella di volersi candidare con il centrodestra (colpisce molti il fatto che difenda Mediaset dalla scalata ostile della francese Vivendi) a quella di voler formare un suo partito liberale. Un misto di ragioni, tra cui anche alcune personali, lo tengono però lontano dalle elezioni 2018. Dopo la sconfitta del Pd, però, Calenda tornerà a recitare la sua ultima, breve parentesi da mediano.

Dentro il Pd e di nuovo fuori

Con la sconfitta alle politiche del 2018 e l’annuncio delle dimissioni di Renzi, le cose tornano a muoversi in fretta. Calenda annuncia su Twitter la sua intenzione di prendere la tessera del Pd e questa volta lo fa davvero. Secondo molti, Calenda si prepara a dare la scalata al partito al congresso successivo, ma lui li smentisce: «Sarebbe davvero poco serio», dice, annunciando che intende comportarsi da semplice militante.

Ma Calenda ha un modo tutto suo di interpretare questo ruolo. Con il Pd diviso, Renzi che sembra pensare alla scissione e la sinistra del partito che sente la vittoria in tasca al prossimo congresso, Calenda si mette a brigare per comporre le divisioni interne al partito. Ma quando i suoi tentativi di mediazione via Twitter falliscono, la prende molto male.

«L’unico segretario che bisognerebbe candidare è il presidente dell’associazione di psichiatria», dice a settembre. A febbraio: «Va davvero costruito qualcosa di nuovo lasciando il vecchio centro sinistra e cespugli vari al loro destino». A giungo: «che palle ‘sto partito».In gergo calendiano, non sono semplici dichiarazioni di insofferenza, ma il segno che l’ex ministro si prepara di nuovo a correre da solo. Il resto è storia contemporanea.

Calenda ormai non nasconde la sua ambizione di formare un nuovo partito che vada oltre il Pd, ma negoziando duramente con la debole segreteria di Nicola Zingaretti riesce a spuntare dal Pd la candidatura da capolista alle Europe nella circoscrizione Nord est, quella con il serbatoio di voti dell’Emilia Romagna. Non solo: ottiene per il suo movimento Siamo europei, metà simbolo elettorale. Quando in autunno il Pd si alleerà con il Movimento 5 stelle per formare il governo Conte 2, Calenda uscirà dal partito per fondare Azione.

Gli ultimi tre anni, hanno visto Calenda alternasi tra l’alleanza con il Pd e il suo cannoneggiamento. Se in alcune città e in alcune elezioni regionali, Calenda si accoda senza grandi fanfare al centrosinistra, in altre, come la competizione per Roma che lo vede protagonista, ne diviene un accanito avversario. Ora, tra la scelta di creare un grande fronte repubblicano, come lui stesso suggeriva al Pd di fare, e quella di una solitaria e rischiosa corsa da samurai, ha scelto ancora la seconda, La più calendiana di tutte le scelte.

 

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