Questo giovedì in Lussemburgo i ministri Ue tentano l’accordo sul Patto di migrazione e asilo, e nelle stesse ore Manfred Weber, il plenipotenziario dei popolari europei, si trova a Roma. Il Ppe e il governo Meloni seguono la stessa linea in tema di migranti, e che l’accordo sul patto si chiuda o no, festeggeranno entrambi. Se l’accordo c’è, verrà presentato come un successo della linea tenuta; e se l’accordo salta, c’è la campagna per le europee praticamente già fatta, al grido di “frontiera dura!”.

In tutto questo, Matteo Salvini predica in solitudine dalle colonne dei giornali di mezza Europa la sua agognata unione delle destre: dopo che la leader di Fratelli d’Italia gli ha fatto saltare il piano del gruppone sovranista, ora invoca inascoltato che lo si aggiunga all’intesa melonian-popolare.

La linea

Ad aprile Manfred Weber ha sottoposto al voto degli eurodeputati un emendamento al bilancio per stoccare risorse comuni su infrastrutture di controllo delle frontiere, una versione ammodernata del vecchio muro caro alle destre. Era prevedibile che una maggioranza numerica in aula non ci sarebbe stata, ma Weber ha comunque voluto dare quel segnale, di slittamento più a destra.

Ed è altrettanto chiaro il segnale trasmesso nell’editoriale cofirmato con Antonio Tajani, ministro degli Esteri e suo principale referente in Forza Italia. I due hanno sparato contro socialisti – che fino a prova contraria condividono con loro la maggioranza Ursula – e verdi, oltre a ostracizzare la sinistra: «Estremisti di sinistra»; l’altro versante dell’arco politico – la estrema destra di Meloni – non appare per i due problematica. Anzi.

Weber ha più volte sostenuto la linea del governo Meloni sulle migrazioni, e ha anche fatto sua in più occasioni la criminalizzazione delle ong, che fosse per le loro attività in mare o nell’Europarlamento.

Il patto

Questo giovedì i ministri degli Interni e della Giustizia europei tentano di arrivare a una sintesi digeribile del Patto di migrazione e asilo. L’Italia con Matteo Piantedosi punterà sul rafforzamento della dimensione esterna (l’Europa fortezza), su rimpatri più veloci e su investimenti sui paesi di partenza; è stato chiesto non a caso che la Tunisia entrasse nell’agenda di questo Consiglio Ue. In ballo c’è l’intervento del Fondo monetario internazionale, e insomma quello che Weber e il governo Meloni invocano all’unisono: «Un accordo globale con la Tunisia, simile a quello con la Turchia nel 2016, una priorità se vogliamo riprendere il controllo del Mediterraneo». Take back control, slogan delle destre dai tempi di Brexit.

Finora il patto era risultato indigesto anzitutto alle destre che del governo Meloni sono sodali: la Svezia, che fino a fine mese ha la presidenza di turno, ha rischiato che i Democratici svedesi (l’estrema destra amica di Meloni) facessero saltare il governo proprio sul patto; la Polonia a guida ultraconservatrice – alleata di Meloni in Ue – ha boicottato redistribuzione e condivisione degli oneri, nonostante abbia goduto di supporto incondizionato per l’accoglienza dei rifugiati ucraini grazie all’utilizzo inedito di una direttiva del 2001. Ora o la va o la spacca.

Sono passati ben tre anni – era settembre 2020 – da quando Ursula von der Leyen se n’è uscita con la bozza di patto. La aveva presentata come un tentativo di «azzerare Dublino»; non solo non è mai stato così, ma l’unica cosa che in questi tre anni era finita azzerata è proprio il patto. Sul rafforzamento delle frontiere esterne la sintonia è facile, tra Weber, Meloni e non solo; sulla redistribuzione meno, e pure sull’idea – avversata ad esempio da Varsavia – che se non si condivide l’accoglienza allora si debba corrispondere un contributo finanziario, di circa 20mila euro a migrante.

Si potrebbe chiudere il dossier anche senza l’unanimità, ma c’è chi – Piantedosi per primo – sostiene che «una vera svolta ci sarà solo quando tutti i paesi faranno un passo» nella stessa direzione. Se nel Consiglio Ue di questo giovedì scatta l’ennesimo rinvio, diventa a dir poco improbabile chiudere i negoziati interistituzionali prima delle europee di giugno 2024.

Solitudine di Salvini

Ma a quel punto popolari e meloniani avranno parole d’ordine e una agenda comune anche per la campagna elettorale europea. Matteo Salvini viceversa si ritrova sottratte sia quelle parole che un’agenda comune.

«Gran risultato di popolari e Vox!», dice citando le famiglie di Ppe (Weber) e conservatori (Meloni): «Il centrodestra unito vince in Europa!». Ma come dimenticare quando proprio Meloni gli fece saltare il piano di gruppone sovranista. E con altrettanta abilità lo tiene alla larga dalle intese con Weber.

Il leader del Ppe non incontrerà la premier a Roma, e non farà punti stampa per non creare casi ai cristianodemocratici nella sua Germania. Ma è necessario incontrarsi se si va già nella stessa direzione?

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