«Ça va mal se terminer». Non può che finire male: i messaggi che arrivano da Parigi contengono tutti la stessa angoscia.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha sancito per l’ennesima volta – questo mercoledì, parlando al paese nel tg dell’ora di pranzo – che intende «andare avanti» con la riforma delle pensioni più contestata degli ultimi tempi. E non si è accontentato di passare sopra le istanze di chi protesta: ha anche delegittimato le manifestazioni in corso paragonandole al tentato golpe del Campidoglio americano.

Macron quindi non offre alcuna vera via di uscita al dissenso che gonfia piazze e strade di tutta la Francia, e che darà vita questo giovedì a un poderoso sciopero generale: «La riforma è spiacevole ma inevitabile, Borne resta al governo per tutto il tempo possibile, non ho rimpianti».

E mentre il presidente radicalizza così lo scontro, perché non offre vere vie di uscita istituzionali, al contempo le forze dell’ordine mettono in atto la repressione di chi dissente. Una repressione che si materializza in varie forme, dagli insulti agli arresti, dai calci e pugni alla violenza pure sui giornalisti.

Questa non è la prima volta che Macron – in tandem con il ministro degli Interni Gérald Darmanin – mostra il suo volto illiberale. Ma la delicatezza del frangente rende questo atteggiamento esplosivo.

Il muro di Macron

La settimana francese era cominciata con l’ingombrante silenzio presidenziale.

Dopo che la premier Élisabeth Borne ha annunciato il ricorso all’articolo 49.3 della Costituzione per mettere a segno la riforma delle pensioni scavalcando il voto dell’assemblea nazionale, Emmanuel Macron è scomparso dai radar delle presenze e comunicazioni ufficiali.

Lunedì, quando per soli nove voti il governo Borne ha resistito alla mozione di sfiducia trasversale che portava il peso dei partiti di opposizione e anche di un pezzo del partito repubblicano, il silenzio di Macron è stato fatto notare in aula: spera di cavarsela nascondendosi?, ha detto l’opposizione nei suoi interventi.

Poi questo mercoledì venti minuti di intervento, all’ora di pranzo su TF1.

Per dire cosa? Che «si va avanti». Nessun ripensamento, nessun rimpianto: «la riforma è spiacevole ma necessaria», secondo il presidente. Che interrogato anche sul fragilissimo governo Borne, ancora in piedi solo per nove voti, difende pure quello: la premier resterà in carica «per tutto il tempo possibile», con «una nuova agenda parlamentare».

Intanto la premier va in cerca di voti per i prossimi progetti di legge, come quello imminente sull’immigrazione: la prossima settimana prevede una ridda di incontri per costruire maggioranze testo per testo, come da indicazioni del presidente.

Macron insomma tira dritto – «prima la riforma si fa e meglio è, chiuderemo il dossier entro fine anno» – e opera anche almeno due grandi mistificazioni.

La prima è quella di sostenere che la riforma delle pensioni serve, per lui, a puntare su sanità e scuola pubbliche: sono promesse già sentite anche tra i due turni delle presidenziali, quando Macron provava ad attirare a sé i voti da sinistra, ma la sua azione politica dal 2017 è sempre andata nella direzione opposta, cioè smantellamento e privatizzazione dei servizi pubblici.

Repressione illiberale

La seconda manipolazione retorica è quella di paragonare le proteste spontanee in corso in Francia alla tentata presa del Campidoglio negli Stati Uniti.

Ma il 6 gennaio 2021 di Capitol Hill aveva tratti golpisti e una regia precisa. Le manifestazioni in corso in Francia mobilitano persone di ogni età, soprattutto giovanissimi, con il primo argomento del vulnus democratico macroniano: il problema è proprio che il presidente spinge una riforma che due terzi dei francesi non vogliono e ha scavalcato il parlamento per approvarla.

«Contano le elezioni», dice lui, fingendo di ignorare che tanti lo avevano votato solo per fare da barriera all’estrema destra di Marine Le Pen. «Ma le manifestazioni dei sindacati, quelle vanno bene», si cautela il presidente.

E gli stessi sindacati, che questo giovedì mettono in atto il grande sciopero generale contro la riforma, non si fanno irretire: difendono le istanze sociali nel loro complesso dall’attacco macroniano. «Le sue osservazioni esternano il suo disprezzo per i milioni di persone che manifestano», commenta prontamente Philippe Martinez, segretario generale della Confédération générale du travail.

Intanto la società civile prova a reagire alla repressione poliziesca vista nelle strade in questi giorni: Amnesty Ue ha lanciato «l’allarme sull’uso eccessivo della forza, che risulta essere molto diffuso, e gli arresti arbitrari».

Le reti sociali, come all’epoca del G8 di Genova, consentono di portare alla luce gli abusi delle forze dell’ordine. E allora si vedono nitidamente ragazze che passano per caso vicino alla polizia e vengono malmenate, manifestanti che la polizia butta a terra e picchia urlando «sacco di merda!», giornalisti colpiti dalla furia delle forze dell’ordine.

Infatti l’allerta sulla repressione arriva anche da loro: la principale organizzazione sindacale giornalistica del paese, il Syndicat national des journalistes, ha informato delle violenze poliziesche il garante dei diritti; e pure la federazione europea dei giornalisti sta raccogliendo segnalazioni per riportarle al Consiglio d’Europa.

Un’inchiesta del settimanale Politis individua tra i picchiatori corpi di polizia che già in passato hanno preso di mira difensori dei diritti umani.

E in tutto questo il ministro dell’Interno che fa? Gérald Darmanin si congratula pubblicamente con le forze dell’ordine. Del resto sono stati lui e Macron, nel 2020, a spingere per una “legge sulla sicurezza globale” che segnalava già la svolta illiberale.

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