Quanti demoni serviranno ancora, a Emmanuel Macron, per mantenere saldo il potere? Avere l’estrema destra come avversaria alle presidenziali gli ha garantito di restare all’Eliseo. Ora però la Francia ha bisogno di un primo ministro, e il grande escluso del ballottaggio, Jean-Luc Mélenchon, diventa un baricentro nelle legislative di giugno.

Persino i socialisti più riluttanti, di fronte a un partito ormai ridotto in macerie, hanno dovuto arrendersi alla nuova egemonia della France Insoumise: il campo di Mélenchon ha riorganizzato attorno a sé l’intero fronte della sinistra ecologista. Si chiama “Nupes” (Nouvelle union populaire écologiste et sociale) ed è il peggiore incubo di Macron. Che dopo aver tentato in ogni modo di disinnescare questa unione, ora prova ad applicare a sinistra la strategia usata con la destra: diaboliser, demonizzare, anche Mélenchon. Schiere di deputati macroniani avvertono che «Jean-Luc Mélenchon è l’uomo della sinistra estrema»: «Guardate che vuole l’insurrezione popolare», tuona ad esempio Patrick Vignal. Oggi a mezzanotte scade il primo mandato di Macron, e comincia formalmente il secondo. Il presidente, a nuovo battesimo avvenuto, può nominare il nuovo governo che sostituisca quello a guida Jean Castex; e a giudicare dai nomi che circolano, ha intenzione di sfruttare questa carta con abilità da prestigiatore. Ma poi è a giugno che viene eletto il nuovo parlamento, e saranno i nuovi eletti a dover dare la loro fiducia a un primo ministro. La vera novità in campo è appunto Mélenchon, che di nuovo in realtà ha ben poco: è sulla scena politica da molto tempo. Ma ha saputo sfruttare la ricomposizione del quadro politico francese, disarticolata proprio dall’attuale presidente, in una direzione a lui favorevole. Anche se non riuscisse a ottenere una maggioranza tale da imporre a Macron una coabitazione, sta comunque costruendo un polo alternativo alle destre; alle scorse presidenziali, con il suo 22 per cento, è rimasto fuori dal ballottaggio per un soffio. Alle prossime non ci sarà Macron, né ha costruito la successione.

Il passaggio a una nuova èra

La prima conquista è stata l’accordo coi Verdi, siglato il 2 maggio. «Vogliamo metter fine al corso neoliberista nell’Unione europea»: così, tra richiami allo stato di diritto e alla «disobbedienza», è stato sciolto il nodo sul quale i due partiti erano più divisi, cioè la postura in Europa. Il 4 maggio, dopo notti insonni di trattative, è arrivato anche il patto più difficile da chiudere, e cioè quello con i socialisti. Quell’unione che risultava impossibile al momento di candidarsi alle presidenziali, è apparsa ineluttabile subito dopo: gli elettori hanno premiato il più forte e radicale in campo; chi sosteneva le istanze ecologiste ha preferito Mélenchon alla moderazione dei verdi, che non hanno raggiunto il 5 per cento. I socialisti sono stati polverizzati: neanche il due per cento. Perciò nelle notti di trattative, Mélenchon ha ribaltato le sue sorti: da forza marginale a egemone, da umiliato a conquistatore. Nel 1997 si è visto strappare dalle mani la leadership del partito socialista da François Hollande, di lui ha detto: «Voleva vederci umiliati». Da allora ha anticipato, con le sue fuoriuscite e i suoi posizionamenti, tutte le inadeguatezze della sinistra di sistema, da lui accusata di «assecondare il neoliberismo». Ha lasciato i socialisti nel 2008, in tempo per smarcarsi dal loro declino, che inizia proprio con la presidenza del vecchio competitor interno, Hollande, e prosegue nell’èra Macron.

«Questa è una resa»

Dopo aver già fagocitato i più moderati del partito socialista, Macron ha cercato fino all’ultimo di impedire l’unione. Il 3 maggio, mentre France Insoumise e socialisti stanno trattando, viene fuori guarda caso che l’Eliseo ha proposto il ruolo di prima ministra a Valérie Rabault, la capogruppo socialista all’Assemblea nazionale. Lei rifiuta. Resta però per qualche ora l’opposizione interna degli eletti locali, e questa per i socialisti è in realtà una fortuna: la capacità di presidiare politicamente il territorio è uno dei pochi poteri negoziali che ancora restano al partito rispetto a Mélenchon.

Non a caso la lettera che mille dirigenti locali e nazionali del Ps spediscono al segretario Olivier Faure il 26 aprile, e che viene resa pubblica il 2 maggio in piena mediazione, avverte: «Questo non è un accordo; questa è una resa». La soluzione infine si trova, restando a galla sulla superficie delle priorità condivise: la pensione a sessant’anni, un piano per la transizione ecologica, il blocco dei prezzi sui beni di prima necessità, il passaggio alla sesta Repubblica. Le priorità sono comuni, l’impronta però è una.

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