Băile Tușnad si trova in Romania, ma ogni estate diventa il centro ideologico d’Ungheria. Qui nel 2014 Viktor Orbán ha pronunciato il suo discorso-manifesto sullo «stato illiberale», e qui, dopo una pausa di due anni dovuta alla pandemia, è tornato a sciorinare i suoi programmi. Riguardano anche noi: ci sono i riferimenti al «povero Salvini», ai «quattro governi caduti di recente», e c’è quell’appuntamento imminente con i conservatori americani dove è di casa pure Giorgia Meloni. Ma i programmi di Orbán ci riguardano anche e soprattutto perché il premier amico della destra italiana teorizza «il post occidente», preconizza il ribaltamento degli equilibri in Europa e invoca a chiare lettere accordi con la Russia e la Cina. Dai suoi freddi calcoli sulla «eccezione ungherese», possiamo capire dove vuole andare e dove ci vuole trascinare.

Oltre alla strategia c’è inoltre l’ideologia, ed è più cupa che mai. «Noi non vogliamo diventare un popolo di razza mista», dice Orbán. Sa che più i tempi sono duri per lui, più la propaganda deve essere infuocata e accecare così i suoi avversari. A giudicare dal discorso pronunciato alla summer school in Romania, i tempi sono durissimi: oltre al solito repertorio contro migranti e comunità Lgbt, le frasi shock sulla razza fanno il giro del mondo. «Visti gli articoli della stampa liberale, l’evento per noi è un successo», si compiace il segretario di stato ungherese Zoltan Kovacs. La miscela esplosiva dell’identità – la stessa che spinge Salvini a esibire le Madonne e i rosari, e la stessa che fa invocare a Meloni «Dio, patria e famiglia» – serve a Orbán per scaldare gli animi dei suoi supporter, e per dirottare sui temi identitari le reazioni più infuocate. Ma le sue trame geopolitiche non sono meno allarmanti per l’Europa.

Il post occidente

«Credevamo che la scienza ci proteggesse, poi c’è stato il Covid. Credevamo che non ci sarebbe più stata guerra in Europa, ed eccola qui, ai confini ungheresi. È iniziato un decennio di pericoli, di incertezze e di guerre». Per Orbán l’occidente vive il proprio declino, siamo anzi già nel «post occidente», e «il tempo dell’ottimismo» è finito. In realtà è da tempo che l’autocrate ungherese fonda il proprio consenso sulla paura: il suo successo del 2010, anno nel quale si delinea bene anche la sua deriva dispotica, viene preparato da Arthur J. Finkelstein, che esporta dal mondo repubblicano Usa all’Europa dell’est la sua strategia comunicativa basata su paura, divisioni e individuazione di capri espiatori.

Nel nuovo discorso di Băile Tușnad tornano i soliti nemici: George Soros, i migranti, Bruxelles. Ma l’immagine di un’Europa in declino è più cupa che mai. Proprio come l’estrema destra francese di Éric Zemmour, che con Orbán collabora, il premier ungherese parla del «gran rimpiazzo» e di un occidente sul precipizio. «Che ci piaccia o no, i popoli si dividono in due gruppi, quelli capaci di mantenere biologicamente i propri numeri, e gli altri».

La razza e l’eccezione

«Ma noi non vogliamo diventare un popolo di razza mista». I critici di Orbán hanno osservato che nella cronaca in diretta del discorso, fatta in inglese su Twitter dal fido Kovacs, questo passaggio è stato omesso. Ma non è la prima volta che il premier ungherese si lascia andare a derive xenofobe di questo tipo. Nella primavera di sei anni fa, ad esempio, citava «il ricollocamento organizzato di stranieri per riconfigurare su nuove basi etniche l’Europa». Nella narrazione del premier, l’Ungheria è «l’eccezione» e lotta per restare tale. «Riusciremo a restare un’eccezione locale? A restarne fuori?».

Orbán dice di voler «restare fuori dalla migrazione, dal gender, dalla recessione e dalla tassazione globale». Ma a leggere bene il discorso, è chiaro che il premier ungherese non si accontenta di restar fuori, vuole imporre la propria «eccezione»: sulla tassazione globale, ad esempio, sta attivamente imponendo il veto in sede Ue; e nel suo intervento in Romania attacca apertamente gli sforzi europei di uscire dalla dinamica del voto all’unanimità, cioè quella che gli consente potere di veto. «Senza veto c’è imperialismo», stando a Orbán.

Anche sul piano identitario, camuffata sotto la veste difensiva c’è una logica aggressiva: quando dice che «non accettiamo nessun trans, né transnazionale, né transgender, al massimo possiamo dire Transilvania che in ungherese si dice Erdély», il premier evoca la «grande Ungheria», cioè quella pre Trianon che si estendeva anche in Romania. Anche i riferimenti ai Balcani, dove Orbán sostiene il separatista serbo Dodik e fa gli interessi di Putin per destabilizzare l’area, rivelano la natura offensiva della strategia orbaniana.

Verso Est

Un «paese di transito», così Orbán definisce l’Ungheria. Cosa intende? Finché conviene, c’è l’Europa: il premier vanta che i negoziati per sbloccare i fondi Ue stanno andando avanti, e che «gli investimenti tedeschi continuano, è stata appena annunciata una nuova fabbrica Mercedes». Ma al contempo pregusta «il giorno, nel 2030, in cui avremo abbastanza potere per ribaltare gli equilibri» e descrive un’Europa che si condanna all’irrilevanza anche per inseguire la strategia Usa.

Il quadro si completa con la propaganda di Orbán sul ruolo di Mosca nella guerra: «La Russia ha attaccato, ma bisogna capire perché». Le scelte occidentali per aiutare l’Ucraina sono fallimentari, dice il premier. Tutto questo «con Trump e Merkel non sarebbe accaduto». Il cerchio si chiude con l’auspicio che l’Ungheria sigli «un accordo con la Russia, uno con la Cina, uno con gli Usa, sperando siano repubblicani». Essere «un punto di contatto che prenda i vantaggi dell’est e dell’ovest» è la strategia.

Le crisi e le destre

Anche se nel suo discorso il premier prefigura «un’Ungheria al top nel 2030», in realtà come lui stesso riconosce alcune sue politiche – come il tetto ai prezzi dell’energia – stanno diventando insostenibili con gli aumenti in corso. I fondi Ue non sono ancora arrivati, e intanto a Budapest questo mese il popolo delle partite Iva ha occupato le strade protestando contro le recenti riforme orbaniane. «Questi tossici che si piazzano sui ponti», è l’espressione usata dal premier per alludere ai manifestanti.

In questo contesto, i grandi proclami identitari servono a restare a galla e porsi come leader degli illiberali. Per esempio, c’è «quel povero Salvini, che rischia la prigione perché si batte per la difesa dei confini». Il leader leghista ha accolto a braccia aperte Orbán a Roma questa primavera; Giorgia Meloni l’ultima volta ha evitato i selfie per non indispettire gli alleati polacchi, «coi quali sulla guerra in Ucraina abbiamo problemi di cuore» come dice il premier ungherese. Ma anche con Meloni le affinità continuano a essere cospicue. A inizio agosto, Orbán sarà a Dallas, in Texas, per la Conservative Political Action Conference, la convention popolata di trumpiani da lui ospitata nell’edizione europea a maggio a Budapest. A febbraio, c’è stato il raduno a Orlando: tra gli ospiti internazionali, Giorgia Meloni.

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