Sopra il ministero della Difesa, il governo ungherese ieri ha fatto proiettare con un gioco di luci il simbolo della Nato. Davanti a un gruppo di media internazionali, che ha invitato per esporre i suoi piani dopo la vittoria alle elezioni, Viktor Orbán ha infiocchettato il suo discorso con dichiarazioni di lealtà all’occidente.

Ma il premier è camaleontico da sempre. Non ha chiuso le porte né a Vladimir Putin né tantomeno a Xi Jinping. Ieri ha detto che «se Putin vuole che paghiamo in rubli, pagheremo in rubli» e ha fatto una sfilza di annunci rivelatori. Ma più delle parole, a Budapest sono i luoghi a raccontare chi è davvero Orbán. In un altro ministero che ha sede nella capitale, quello degli Esteri, c’è una porta molto speciale che è rimasta aperta al Cremlino: è il sistema informatico del governo, con informazioni che in teoria dovevano restare secretate, e pure la corrispondenza. Da lì Putin ha potuto aprirsi un varco e spiare non solo l’Ungheria, ma l’Europa. In un altro punto della capitale, a meno di cinquecento metri dall’ex monastero dove ieri Orbán si è fatto intervistare e dove ha il suo ufficio, c’è la International investment bank: è un avamposto finanziario russo in Europa. Nessuna guerra o sanzione impedirà all’Ungheria di parteciparvi, come confermato ieri dal premier. Per lui, dalla dipendenza dal gas russo si esce con la costruzione di una centrale nucleare russa. Intanto la guerra rende i rapporti con Pechino sempre più validi agli occhi di Orbán. «Lui non è solo il teorico della democrazia illiberale», dice Tamas Matura, esperto dei rapporti sino-ungheresi dell’università Corvinus di Budapest. «Orbán da tempo lavora a una alleanza globale tra i regimi illiberali». La città porta i segni anche di questo: diecimila posti letto per gli studenti verranno cancellati per far spazio a una università cinese, Fudan, e a tal fine il governo ungherese è pronto a indebitare le prossime generazioni.

I rubli e il nucleare russo

«Il presidente ucraino deve smetterla di dire a tutti quel che devono fare» ha detto ieri Orbán, che ha riferito anche di aver parlato con Putin. Chi è stato a chiamare? «Mi ha chiamato lui, per congratularsi, come hanno fatto anche Erdogan e Trump». La conversazione con il Cremlino è stata lunga, «la relazione che avevamo costruito si è incrinata perché siamo su fronti opposti, anche Putin lo comprende. L’Ungheria si trova in una situazione particolare, è il bordo orientale dell’occidente». Quanto si è incrinata davvero la relazione che Viktor Orbán coltiva da anni con il presidente russo? «Se Putin vuole che paghiamo in rubli, noi pagheremo in rubli»: questa è una prima risposta, alla quale si aggiunge la resistenza dell’Ungheria ad allargare le sanzioni Ue al fronte energetico. Prima ancora di assumere la premiership nel 2010, l’anno prima Orbán è al Cremlino, dove poi torna spesso, l’ultima volta a febbraio scorso: spera di ottenere dal sodale russo condizioni favorevoli sul gas, per poter vendersi in campagna elettorale come il garante dei prezzi sotto controllo. Cosa che fa comunque, anche se da Putin non ottiene favori. Ma a Putin, Orbán di favori ne concede molti. A lui si ispira, per lui destabilizza l’Europa dall’interno come sta facendo in Bosnia, e con lui fa affari. L’episodio più clamoroso riguarda l’accordo stretto nel 2013 dal premier ungherese con il colosso energetico russo Rosatom per un nuovo reattore nucleare in Ungheria. Un progetto, quello di “Paks II”, del valore di dodici miliardi di euro, sul quale la Commissione Ue ha poi espresso molti dubbi in ragione delle regole europee sulla competitività. Ma quel progetto non è mai stato interrotto. Anzi, quando l’esperto di nucleare Attila Aszodi ha provato a opporre resistenza al fatto che Mosca volesse accorciare l’iter per l’approvazione, il governo Orbán ha risolto l’impiccio togliendogli l’incarico. Ora il premier ungherese dice di voler uscire dalla dipendenza dal gas russo, e come? Con il nucleare russo. Ieri ha confermato che «è sempre stata l’Ue a cercare di frenare il piano, per me deve andare avanti e andrà avanti».

La banca e il ministero

Anche il sodalizio finanziario con il Cremlino non si è fermato con l’aggressione russa in Ucraina. Budapest ospita istituzioni strettamente connesse al Cremlino, come la sede della Banca internazionale degli investimenti russa. «Tre anni fa ha creato qui il suo avamposto nell’Europa centrorientale», racconta la vicesindaca Kata Tutto, oppositrice di Orbán. «C’erano anche investimenti di altri paesi, ma la quota più cospicua, il 60 per cento, era riconducibile alla Russia. Con la guerra la maggior parte degli altri paesi si sta sfilando, e non l’Ungheria. Anzi il governo ha detto di voler estendere la sua partecipazione. Non sappiamo bene come siano andate le cose ma questa banca è riuscita a sfuggire alle sanzioni Ue». Ieri Orbán, interrogato sul punto, ha confermato che a rompere con quella banca non ci pensa proprio.

Ma il presidio che il Cremlino ha a Budapest va ben oltre, e riguarda tutta l’Ue, come ha rivelato a fine marzo Szabolcs Panyi. Il reporter ungherese di Direkt36 è stato spiato dal governo ungherese con Pegasus proprio per le sue inchieste sul cerchio magico di Orbán, sulle sue connessioni con Mosca e Pechino; ma non ha smesso di indagare.

Di recente ha ricostruito che gli hacker vicini al Cremlino hanno bucato i sistemi informatici del ministero degli Esteri e del Commercio ungherese, compreso materiale riservato, inclusi gli scambi: una porta (informatica) spalancata sull’Ue. Un mese prima dell’invasione dell’Ucraina, gli attacchi informatici erano ancora in corso; il ministro competente sapeva che il ministero era nel mirino da tempo, e «nella seconda metà del 2021 era chiaro che i russi lo avevano completamente compromesso». Péter Szijjártó, il ministro, a dicembre ha ricevuto dal suo omologo russo Sergej Lavrov una medaglia onorifica.

La via di Pechino

«Ma ancor più che con la Russia, che ora è in difficoltà economica, è con la Cina che il premier punta a fare affari», spiega Panyi. Lo ha visto con i suoi occhi Nora Schultz: nel nono distretto, il movimento da lei fondato, Szikra, si era battuto per il diritto alla casa e non vedeva l’ora che il governo costruisse diecimila posti letto per gli studenti. «C’era un accordo con l’amministrazione comunale, ma di punto in bianco è venuto fuori che Orbán aveva stralciato il piano per far posto alla Fudan University». Il sistema, anche con la ferrovia Budapest-Belgrado che fa parte della “via della seta”, è sempre lo stesso, spiega Schultz: «L’Ungheria chiede un prestito alla Cina, nell’immediato Orbán foraggia la sua cerchia coi vari subappalti, ma indebita lo stato e a restituire quei soldi saranno le prossime generazioni». Il professor Tamas Matura, esperto di Cina, conferma che «il progetto costa oltre un miliardo di euro, che è molto più di quanto il governo spenda per il suo intero sistema educativo in un anno». Il progetto di Fudan ha suscitato una tale mobilitazione in città che il premier lo ha congelato in fase elettorale, e a breve ci sarà un referendum: «Abbiamo raccolto più firme delle necessarie», dice Schultz, che ha guidato la protesta assieme al sindaco Gergely Karacsony. Ma il premier non si ferma: come ha detto ieri, «temo che la guerra si estenderà ma io mi batterò perché nei confronti della Cina l’Ue abbia una sua autonomia strategica». Matura spiega che la strategia delle porte aperte è iniziata ben prima del 2010, con il governo precedente, e che non c’è un aumento del volume di affari tale da giustificare questa affezione orbaniana per Pechino. «Ma Orbán resta l’ideologo dell’alleanza globale tra regimi illiberali».

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