L’aumento delle spese militari in Germania è un’occasione per spingere sull’integrazione europea sfruttata soltanto a metà. In ogni caso, uno sforzo superficiale che trova il suo alibi ai limiti della situazione geopolitica attuale e, soprattutto, condizionato dalla mancanza di coordinamento all’interno dell’Unione europea. 

Olaf Scholz qualche settimana fa ha inaspettatamente proposto di investire un centinaio di miliardi di euro nella difesa tedesca, una cifra senza precedenti, soprattutto negli ultimi anni, quando la Bundeswehr ha visto progressivamente ridursi sempre di più il budget a disposizione. Secondo le ultime indiscrezioni, raccolte soprattutto dallo Spiegel, il pacchetto da 102 miliardi andrebbe ripartito tra i 68 miliardi per i progetti nazionali e i 34 destinati a collaborazioni internazionali, europee e non.

Punto di riferimento sarà un documento d’indirizzo elaborato dal governo uscente e messo subito da parte dalla nuova ministra della Difesa Christine Lambrecht a inizio mandato. Una scelta comprensibile, considerata la risicata disponibilità economica degli ultimi anni che faceva sembrare la lista un concentrato di desideri irrealizzabili.

Oltretutto, negli ultimi anni la Bundeswehr si è mossa usufruendo di stanziamenti annuali: in caso di non utilizzo, i fondi previsti dai bilanci federali tornavano a Berlino. Un’allocazione del denaro piuttosto infruttuosa, considerato che i progetti più grandi hanno tendenzialmente bisogno di investimenti a lungo termine, soprattutto quando prevedono la collaborazione internazionale. 

È ancora presto per conoscere nel dettaglio i settori in cui fluirà il denaro promesso da Scholz, che comunque avrebbe intenzione di gestire le assegnazioni in prima persona, ma già dalla ripartizione macroscopica delle risorse emerge come la parte del leone sia quella degli investimenti nazionali. 

Le condizioni dell’esercito

Il motivo diventa più chiaro quando si guarda alle condizioni attuali della Bundeswehr. Nelle ultime settimane, il tenente generale Alfons Mais ha detto che «l’esercito che ho l’onore di guidare è al verde». 

Una frase tutt’altro che esagerata, considerato che a dicembre 2021, secondo una ricognizione interna, solo il 77 per cento delle armi in dotazione all’esercito, il 71 per cento degli aeroplani e il 40 per cento degli elicotteri erano pronti all’utilizzo. Dei 2.000 carri armati di cui disponeva la Bundeswehr nel 1990 ne sono rimasti appena 225, e non tutti funzionano. 

Dei 68 miliardi destinati ai progetti interni, quindi, una buona fetta sarà assorbita dall’ammodernamento dell’equipaggiamento: solo per rimpinguare i depositi di munizioni, razzi e granate serviranno 20 miliardi di euro. Altri cinque potrebbero finire nell’acquisto di nuovi elicotteri per il trasporto di materiali bellici, considerato che alcuni di quelli attualmente in uso risalgono agli anni Settanta e il loro utilizzo implica costi enormi. Sulla lista della spesa ci sono anche almeno due nuove corvette per 2 miliardi e l’ammodernamento del sistema di difesa aerea Patriot. Costo stimato: 600 milioni di euro.

L’altro grosso problema che Scholz deve risolvere è quello della dotazione dell’aeronautica. I Tornado che utilizza l’esercito sono ormai obsoleti e andrebbero sostituiti: la soluzione dovrebbe essere un ammodernamento degli Eurofighter che i tedeschi pilotano già oggi integrato dall’acquisto di alcuni F-35 nuovi, un progetto da 15 miliardi di euro.

Gli F-35 saranno necessari anche per continuare il programma della Nukleare Teilhabe: per gestire le testate nucleari americane ancora presenti in Germania un aeroplano americano fa comodo. Non è un caso che Scholz abbia detto che l’acquisto dei velivoli Lockheed «è sul tavolo». 

Al di là degli aeroplani, una buona parte degli armamenti può essere prodotta dalle aziende domestiche, motivo sufficiente per far decollare le quotazioni in Borsa dell’industria bellica. Le imprese non hanno perso tempo: Rheinmetall, uno dei giganti del settore, che nei primi 9 mesi del 2021 ha fatturato 700 milioni di euro, ha presentato immediatamente al governo un pacchetto da 42 miliardi di euro. 

La prospettiva europea

Negli investimenti interni rientra anche la necessità di rimpinguare le truppe. Negli anni Ottanta l’esercito disponeva ancora di 500mila soldati, oggi ne sono rimasti appena 180mila. 

Una parte di queste truppe nei piani del governo Scholz andrebbe però a disposizione di una forza speciale europea, pronta a interventi di tutti i tipi, la Eu rapid deployment capacity prevista dalla bussola strategica elaborata dal Consiglio europeo.  

Entro il 2025 il ministero della Difesa prevede di poter garantire alla truppa europea 1.500-2.000 soldati forniti di armi e munizioni. In un primo momento la ministra aveva parlato di 5.000, una gaffe che ha reso ancora più vacillante la sua posizione, già difficile, alla guida di questo dicastero. 

Il ministero e il famigerato Beschaffungsamt, l’ufficio che si occupa delle dotazioni delle truppe, noto per la scarsissima efficienza e l’immensa mole di burocrazia che lo immobilizza, saranno infatti probabilmente i primi nemici della realizzazione tempestiva dei piani del governo e il coordinamento con il resto d’Europa. Un problema che per il momento non è stato affrontato. 

Sempre nella bozza circolata negli ultimi giorni, i 34 miliardi dedicati ai progetti internazionali fluiscono soprattutto in collaborazioni in parte già avviate coi francesi, come nel caso dello sviluppo di un nuovo sistema di combattimento aereo, un nuovo carro armato e un drone da combattimento.

Una parte del denaro andrà poi al sistema europeo di protezione contro i missili ipersonici Twister, ma sarà finanziata anche la Combat Cloud prodotta da Airbus, un sistema di coordinamento di dati e informazioni utili in battaglia. La Bundeswehr lavorerà con il Regno Unito a nuovi sistemi di artiglieria e munizioni mentre svilupperà insieme agli olandesi un nuovo modello di fregatta e piattaforme per l’aerosbarco. Berlino cercherà invece Oslo per realizzare insieme nuove tecnologie per i sottomarini. 

Una difesa organica dell’Unione europea sembra ancora piuttosto lontana. In un paper del 2015, appena dopo l’invasione della Crimea, la Bundesakademie für Sicherheitspolitik forniva un ampio ventaglio di ragioni a favore e contro l’istituzione di un esercito europeo. Oggi, a quasi dieci anni di distanza, tante argomentazioni contro una difesa comune restano ancora in piedi, in Germania, ma anche negli altri paesi europei. 

Per esempio, gli oppositori vorrebbero evitare di raddoppiare gli sforzi economici per mantenere contemporaneamente un esercito nazionale e uno europeo. Stesso discorso per le forze della Nato, che pure attingono dai bilanci nazionali: in più, mantenere una potenza politica non militare come l’Unione europea che possa fare da alleato alla Nato nei negoziati internazionali è considerato da tanti un vantaggio.

Ultimo nella lista, ma non meno importante, c’è l’ostacolo dello scarso allineamento in politica estera, che anche nella crisi ucraina sta dimostrando quanto sia ancora remota la possibilità di lavorare a una forza comune. 

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