Descrivere i rapporti con gli Usa come un matrimonio fallito indebolisce l’Europa. Che invece deve costruire la sua autonomia a partire da un nuovo posizionamento economico
Dall’insediamento di Donald Trump, vari editorialisti dei principali quotidiani europei hanno descritto la frattura transatlantica con termini più adatti ad una rottura sentimentale: abbandono, tradimento, solitudine. Dopo l’accordo tariffario di luglio, il linguaggio è cambiato ulteriormente, dipingendo l’Ue come remissiva, se non addirittura supina, di fronte ad un partner violento.
In quanto politologi e geografi politici, sappiamo che i termini che usiamo per descrivere la nostra realtà politica sono estremamente importanti. Essi hanno il potere di determinare ciò che rientra nella sfera del possibile e ciò che invece ne è escluso. Descrivere la relazione transatlantica come un matrimonio fallito indebolisce l’Ue sia nel suo essere attuale, ma soprattutto nel suo potenziale futuro.
Una geopolitica di “auto-aiuto” non aiuta
Nel suo libro del 2021 The Age of Unpeace, Mark Leonard ha descritto le relazioni transatlantiche come «un matrimonio privo di amore in cui i partner non si sopportano ma non riescono a divorziare». Scritto durante la prima amministrazione Trump, il libro di Leonard è stato pubblicizzato come «un corso essenziale di auto-aiuto geopolitico» (Adam Tooze sul FT) per persuadere gli europei che il rapporto con il loro ex-alleato non era più lo stesso.
L’abitudine di trasporre il linguaggio della psicologia delle relazioni alle relazioni tra Stati Uniti e Unione europea è tuttavia molto più duraturo. Guardando indietro ai primi anni 2000, un altro momento di profonda crisi nel partenariato transatlantico, viene subito in mente la caratterizzazione di Robert Kagan degli Usa e dell’Europa come provenienti da “Marte” e “Venere”. E la narrativa tracciata da Kagan e da altri commentatori neoconservatori di un’Ue femminizzata e debole, riluttante ad assumersi i propri obblighi in materia di sicurezza, è stata riproposta con forza dall’attuale amministrazione Trump.
Le rappresentazioni di sé e dell’altro sono fondamentali nel definire non solo l’identità nazionale degli stati, ma anche la loro personalità geopolitica. Le relazioni internazionali sono sempre un gioco di rappresentazioni speculari. Riconoscendo questo, possiamo comunque scegliere di non cadere nella trappola di credere alle narrazioni create da altri. Come ha affermato Salvatore Bragantini proprio su queste pagine, «bisogna saper leggere la Storia mentre avvengono fatti il cui senso si chiarirà solo fra decenni».
Manteniamo quindi questo senso della storia: il senso di ciò che è l’Europa, al di là delle relazioni transatlantiche e, cosa ancora più importante, di ciò che può essere. È il primo passo per uscire da una relazione tossica.
Partendo dalle nostre forze
L’Ue dovrebbe quindi concentrarsi su ciò che è (e può essere) piuttosto che su ciò che non è, pur riconoscendo che le dipendenze prodotte da un “matrimonio” di oltre 50 anni sono molto reali. Ma i leader dell’Ue devono anche riconoscere pienamente che l’“altra metà” è cambiata profondamente e non accetterà mai l’Ue come partner alla pari.
Questo perché l’amministrazione Trump non accetterà mai un’Europa che non assomigli agli Stati Uniti. Emmanuel Macron può fare appello alla sovranità europea, ma nessuno, da entrambe le parti dell’Atlantico, crede che l’Unione europea sia o voglia essere uno stato nazionale sovrano.
Dall’inizio, l’Ue è sempre stata una “comunità” di nazioni, impegnata a ridurre al minimo i conflitti e a massimizzare la prosperità. Una comunità del genere funziona per forza di cose con il consenso. Passa un sacco di tempo a creare rapporti e gergo per mettere tutti d’accordo. Si muove lentamente, basandosi sull’accumulo di piccole decisioni, spesso prese solo dopo lunghe discussioni, pero alla fine per arrivare a qualcosa di nuovo e importante.
Un accordo di questo tipo non è un partner romantico per uno stato come quello che sta cercando di plasmare Trump: il divario tra queste visioni del mondo è troppo grande. Ma questo divario a parte, l’Europa è tutt’altro che debole.
L’Europa che abbiamo oggi è riuscita a bandire conflitti che hanno lacerato il mondo, non solo una, ma ben due volte. Altrettanto importante è il fatto che l’Europa ha creato il mercato unico, ha riscritto gli standard per la contabilità, l’industria, il commercio e la tecnologia e ha persino creato la prima valuta multinazionale moderna al mondo. L’euro non può competere con il dollaro, ma è alla base della prosperità europea e sta ridefinendo la finanza globale. Provate a farlo con una moneta meme, anche se raffigura un simpatico cagnolino.
Quale prossimo passo?
Il grande interrogativo è se l’Unione europea possa diventare più autonoma dagli Stati Uniti. Diventare più autonomi significa anche districare l’economia transatlantica, almeno nella misura in cui l’Europa diventa meno vulnerabile all’influenza americana. Questo distacco richiederà un grande coordinamento, perché i legami economici tra le due sponde dell’Atlantico sono profondi.
L’Unione europea dovrà ripensare il significato di mercato unico, sia in termini di come tale mercato debba servire la prosperità e la sicurezza europee, sia in termini di come possa raggiungere tali obiettivi rimanendo aperta alle interdipendenze esterne, comprese quelle con gli Stati Uniti. L’Ue dovrà riflettere su come misurare e raggiungere una tale autonomia, ovvero quali regole dovrà modificare, quali nuovi strumenti dovrà creare e come potrà riorganizzare il modo in cui gli europei concepiscono la tecnologia e l’innovazione.
Infine, l’Ue dovrà elaborare un piano per realizzare ciò che ancora non tutti gli europei sono disposti ad accettare, ovvero riconoscere che la garanzia di sicurezza degli Stati Uniti di cui hanno goduto negli ultimi ottant’anni non sarà più in grado di proteggerli e investire denaro e risorse umane per garantire la sicurezza dei propri cittadini. Ciò significa ovviamente provvedere alla difesa europea. Si tratta di un brusco risveglio che molti europei devono ancora metabolizzare.
Nuovo immaginario comune
Questi piani sono già stati messi in atto. Basta seguire le indicazioni degli ex primi ministri italiani Enrico Letta e Mario Draghi, l’ex presidente finlandese Sauli Niinistö e l’ex primo ministro lituano e attuale Commissario europeo per la Difesa e lo Spazio Andris Kubilius. Anche la terminologia per evocare questa nuova realtà politica europea è già presente. Forse certi di questi termini sono poco eleganti – come «autonomia strategica aperta» – ma svolgono comunque un ruolo importante nel fare in modo che tutti gli stati membri dell’Unione europea si allineino su questo nuovo immaginario comune.
Nel frattempo, la Commissione europea è impegnata a elaborare le piccole decisioni che bisognerà prendere per trasformare l’Unione europea in un tipo diverso di comunità che non solo impedisca agli europei di litigare tra loro e crei le condizioni per la loro prosperità, ma protegga anche l’Europa, gli europei e i valori europei in un mondo pericoloso e in rapido cambiamento.
Questo lavoro non è drammatico. È burocratico. Ed è giusto che sia così. La burocrazia è spesso fastidiosa, ma è la più grande tecnologia mai creata per governare organizzazioni complesse. Basta guardare cosa succede quando si smantella la burocrazia. L’amministrazione Trump lo dimostra con violenza.
Il punto da sottolineare è che la forza dell’Europa non si può misurare in base ad un singolo negoziato commerciale. In questo caso, forse, la metafora della rottura di una relazione è appropriata. Una discussione accesa può essere il modo migliore per sottolineare la profondità delle differenze ormai inconciliabili, ma difficilmente mette entrambe le parti in una posizione migliore per vivere separate, soprattutto se c’è qualche speranza di onorare in un futuro post-Trump ciò che hanno creato in passato.
Luiza Bialasiewicz è professoressa ordinaria di geografia politica all’Università Ca’Foscari di Venezia
Erik Jones è direttore del Robert Schuman Centre for Advanced Studies allo European University Institute
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