Il ritiro dei Soros dall’Europa ha una trama che evoca altri grandi ritiri americani: si finanzia quello che poi diventerà il proprio nemico; si sviluppa poi una contesa con un sempre maggiore dispiegamento di risorse. Infine si abbandona il campo repentinamente. L’Afghanistan di George Soros è l’Ungheria e con lei l’Europa; il talebano della storia è Viktor Orbán, inteso come simbolo degli illiberalismi continentali. Il ritiro – brusco – coincide con un cambio di amministrazione; quando cioè Alex succede a George, suo padre.

L’11 agosto la Open Society Foundation ha informato del suo addio all’Europa le organizzazioni partner ungheresi: la direzione ha deciso un «cambio strategico radicale» e le risorse indirizzate sul versante europeo saranno «estremamente limitate». Dal 2024, niente iniziative europee se non «per le grandi questioni globali». Il cronista ungherese Pál Dániel Rényi parla di licenziamenti massicci, del 40 per cento della forza lavoro. La motivazione fornita è che istituzioni e governi Ue investono già molto in diritti umani, libertà e diversità. Ma «non è affatto vero»: lo ha scritto da subito Radio Free Europe. La principale famiglia politica europea – i popolari – rinserra la guerra alle ong e va a braccetto con le arrembanti destre estreme. Il cordone sanitario è lacero, e i princìpi liberali tutt’altro che al sicuro. Qual è allora la ragione del disimpegno?

Se è vero che il nostro modo di descrivere il mondo descrive noi stessi, a darci la risposta è Alex Soros stesso. Un suo tweet di inizio agosto rilancia un’analisi sulle sorti del liberalismo la cui conclusione è: «I liberali della guerra fredda e i loro eredi non hanno più visioni emozionanti, si ripiegano su sé stessi». Sta succedendo alla fondazione sul versante europeo, anche se non su quello americano. La svolta si sviluppa da giugno, quando George passa al figlio 37enne Alex l’impero filantropico da 25 miliardi di dollari.

Fino ad allora, i finanziamenti dell’Osf verso Europa e Asia centrale erano tutt’altro che declinanti: i bilanci mostrano che nel 2016 qui erano indirizzati 143 milioni di dollari, nel 2017 oltre 154; nel 2019 ben 178, e 209 nel 2021. Il cambio in corso è legato all’erede: mentre il padre ha un’affezione per la terra d’origine, Alex nasce e studia in Usa, e qui si radica, anche sul fronte dei contatti politici. Nella prima intervista da erede della fondazione, quest’estate, racconta i suoi incontri con l’amministrazione Biden. Si dichiara «più politico» del padre e prevede di dirottare sempre più fondi verso le presidenziali 2024. Per lui conta più che mai la politica Usa. «Il fronte dem dev’essere patriottico».

Bricchi di latte e paradossi

Il converso è dar per perso chi ha votato Orbán. Per Stefano Bottoni, autore di biografie sul «despota», non resta «nulla se non polvere di stelle, degli sforzi di Soros in Ungheria».

La storia inizia nel 1982, quando Soros «torna nell’amato paese d’origine con l’idea di sostenere la sfera culturale. Si rivolge a Iván Berend, capo dell’Accademia delle scienze e membro del comitato centrale del partito, e nel 1984 nasce la fondazione». Intere generazioni sono cresciute con Soros: molti ungheresi ricordano il “latte di Soros” distribuito nelle scuole. «Già prima della caduta del regime, Soros sgrava il partito dei compiti culturali, e ne rompe il monopolio ideologico. Con le sue borse – le prime per Oxford sono del 1984 – finanzia intellettuali, poeti, economisti, ingegneri», ricorda Bottoni.

Tra i borsisti, nel 1989, c’è l’attuale premier; quell’anno, la fondazione finanzia il movimento giovanile di Orbán, al quale dà soldi e strumentazioni. Nel 1991 Soros rivendica il ruolo della sua fondazione nel formare «questa classe dirigente, la promessa del futuro». L’Orbán che nell’89 invoca il ritiro delle truppe sovietiche, diventa poi il premier che nel 2014 teorizza la «democrazia illiberale».

Non vuol dire che non abbia introiettato – a modo suo – l’esperienza sorosiana: presidia Budapest e Bruxelles coi think tank. John O’Sullivan ha raccontato a Domani di essere arrivato a presiederne uno – il Danube Institute – perché «la cerchia del premier voleva favorire lo sviluppo di un ambiente intellettuale simpatetico». Orbán sa da Soros quanto conti la sfera culturale, anche se la sua è illiberale.

E Soros? Da anni è bersaglio del premier, che ha costretto nel 2018 la sua Central European University a trasferirsi a Vienna. Il politologo András Bozóki insegna alla Ceu dal 1994 e spera che «Alex consideri la Ceu uno dei pilastri paterni: non riesco a pensare che la dismetta; magari ci inviterà a focalizzarci di più sul sud globale».

Tra le ong c’è fibrillazione per l’annuncio dei tagli. Bottoni ricorda che «nei Duemila Soros ha interrotto i finanziamenti a una fetta di mondo culturale ungherese ritenendo dovesse reggersi da solo; nel giro di un paio d’anni quelle riviste hanno chiuso».

Con l’Ungheria sempre meno europea e più illiberale, e con un’Europa sempre più influenzata dalle destre estreme, oggi l’addio dei Soros sa ancor più di ritirata.

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