È una calda giornata di inizio maggio sul lungomare di Shëngjin. In leggero anticipo sull’apertura della stagione, la spiaggia è piena di bagnanti che si godono il primo sole, bar e caffè popolatissimi. Nel pomeriggio alcuni pescatori preparano le reti prima di partire con le loro barche, la vita scorre placida, come da abitudine.

A poche decine di metri dall’ultima fila di ombrelloni un filo spinato separa la spiaggia dalla banchina del porto, dove procedono i lavori per la costruzione del primo hot spot frutto dell’accordo tra Italia e Albania sui richiedenti asilo. Qui, secondo i piani, tra appena due settimane dovrebbero arrivare fino a 3000 migranti recuperati in mare dalle autorità italiane.

Le strutture

Sulla base dell’accordo, approvato in Senato il 15 febbraio, saranno trasportati a Shëngjin i migranti provenienti dal Mediterraneo centrale, a eccezione di minori, donne incinte e altri soggetti ritenuti vulnerabili. Il governo albanese metterà quindi a disposizione di quello italiano alcune aree del suo territorio per gestire il flusso dei richiedenti asilo, con l’obiettivo, almeno teorico, di alleggerire il sistema di prima accoglienza italiano.

In tutto sono tre le strutture che il governo italiano sta costruendo in Albania nell’ambito di questo progetto. La prima, quella al porto, servirà come hub di sbarco e identificazione delle persone in arrivo. Le altre due si troveranno a circa 20 chilometri da Shëngjin verso l’interno del paese, a Gjadër, un piccolissimo centro abitato ai piedi dell’altopiano collinare di Mali i Kakarriqit, all’interno del perimetro di una ex base militare, costruita negli anni Settanta e poi riutilizzata dalla Cia negli anni Novanta.

Oggi per arrivare a Gjadër da Shëngjin servono più di 40 minuti di strade accidentate, e per raggiungere il sito si passa per una gigantesca pista d’atterraggio abbandonata. Qui sorgeranno un centro dove i migranti saranno rinchiusi in attesa della risposta alla domanda di asilo, la cui capienza massima sarà di 880 persone, e una seconda struttura, sul modello dei centri di permanenza per il rimpatrio (cpr) italiani, che dovrebbe poter ospitare fino a 144 persone. Da qui, non è chiaro se prima di essere rimpatriate le persone dovranno essere portate nuovamente in Italia.

Stando ai numeri che emergono dalla stesura dell’accordo e degli appalti alle società che gestiranno gli hub, le strutture in Albania dovrebbero poter ospitare fino a 3000 persone alla volta. Secondo i piani del governo i richiedenti asilo dovrebbero transitare in territorio albanese solo per il tempo necessario a processare la richiesta di asilo, che secondo le dichiarazioni del presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrebbe essere di 28 giorni. Se così fosse, potrebbero passare per l’Albania, come dalle dichiarazioni in conferenza stampa di Meloni, fino a 36mila migranti all’anno.

Le contraddizioni

Questa cifra non sembra però tenere in conto il reale stato delle cose e dell’effettiva capacità della Commissione nazionale per il diritto di asilo e delle relative Commissioni territoriali di processare le richieste.

Infatti, secondo l’Arci, che si occupa quotidianamente di fornire assistenza alle persone in movimento, attualmente l’Italia per elaborare una richiesta d’asilo impiega circa due anni – non è ancora chiaro come sarebbe possibile scendere a meno di un mese nelle strutture albanesi. Le persone rischiano quindi di restare bloccate a Gjadër molto più a lungo di quanto previsto. Allo stesso tempo, la misura potrebbe essere decisamente meno risolutiva di quanto vorrebbe – o vorrebbe far credere – Giorgia Meloni; posto che, anche qualora si raggiungessero le 36mila presenze annue, si tratterebbe appena del 20 per cento degli sbarchi del 2023, dirottati in strutture la cui gestione resta in ogni caso operativamente ed economicamente in capo all’Italia. Se invece i tempi saranno più simili a quelli italiani non si arriverà nemmeno al 2 per cento.

Tempi e costi

C’è poi la questione dei tempi, e di conseguenza dei costi, che continuano a lievitare. Secondo l’accordo, le strutture dovrebbero essere operative il 20 maggio, giusto in tempo per le elezioni europee, ma i lavori, al porto come a Gjadër, sono ancora in corso e rispettare la data prevista sembra a questo punto poco realistico. Anche il Ministero della Difesa, a capo degli aspetti logistici del progetto, parla di una consegna dei centri a 233 giorni dall’inizio dei lavori, che sarebbe quindi da intendersi per il prossimo novembre.

Nel frattempo, i 650 milioni inizialmente stanziati per i prossimi cinque anni, sono già diventati 825, con il rischio di altri ritardi e aumenti – e con la possibilità di rinnovare l’accordo per ulteriori cinque anni a partire dal 2028. Soldi che il governo sta recuperando da tagli a diversi ministeri, tra cui al momento figurano Esteri (88 milioni), Agricoltura (72) e Università e ricerca (57).

Il progetto avrà un impatto, oltre che sulle casse dello stato italiano, anche sul territorio e sulla politica albanesi. Impatto che il Primo Ministro albanese Edi Rama è riuscito a comunicare come positivo alla quasi totalità della popolazione. Un aspetto non indifferente per quanto riguarda il consenso è che tra i fondi che l’Italia ha stanziato per il progetto è compreso un investimento per migliorare l’infrastruttura locale, a partire dalla viabilità: un fatto che avrà dei risvolti positivi sulla precaria rete stradale locale, sempre più frequentata da turisti europei. Alle associazioni umanitarie che fanno notare come detenere i migranti mentre attendono una risposta alla richiesta d’Asilo contravvenga al diritto Europeo invece Rama risponde semplicemente che i centri albanesi assicureranno comunque condizioni più umane di quelle che i richiedenti troverebbero in Italia.

Nel centro turistico

I tre centri sorgeranno in due località molto diverse tra loro: se Gjadër è una piccola comunità isolata ai piedi di una montagna, dove sembra manchi perfino l’acqua corrente ed è fioca persino la luce dei pochi lampioni, Shëngjin è invece un centro turistico sempre più importante. Nonostante ciò, secondo il direttore del porto Sander Marashi che sta sovraintendendo ai lavori, dalla popolazione locale, fatta per lo più di albergatori, pescatori e ristoratori “non ci sono reazioni”.

Di diversa opinione sembra essere Ilir, che gestisce un albergo sul lungo mare: «A noi nessuno ha detto niente, non c’è stato alcun dibattito, sappiamo quello che sapete voi, quello che si vede al telegiornale». Persino il direttore del porto, in effetti, sembra meno informato di quanto ci si aspetterebbe: «Qui è gestito tutto dagli italiani, io guardo solo i lavori».

Nemmeno davanti agli interrogativi sul posticipo dell’apertura ha alcuna risposta: «Per quanto ne so io qui deve essere tutto pronto per il 20 maggio, se poi sarà possibile questo non lo so». Non si ha più fortuna nemmeno chiedendo informazioni sul punto di vista locale al sindaco Pjerin Ndreu, che liquida: «Se ne occupa il governo centrale, io non posso rilasciare alcun commento sulla questione». Nessuno sa niente, quindi. I pochi che sanno, non commentano, nella confusione dei locali che faticano a farsi un’opinione: «Sicuramente immagino non sarà un bene per il turismo», continua perplesso Ilir, «ma tanto loro staranno chiusi laggiù, e noi qua, questo è quello che più di tutto mi dispiace, che questi saranno rinchiusi, non come gli altri».

I due volti

Non è la prima volta, infatti, mi racconta Ilir, che la comunità di Shëngjin ha a che fare con richiedenti asilo, «ma l’altra volta è stato tutto diverso». Dal 2021, grazie a fondi Nato, la cittadina ospita un migliaio di profughi Afghani in attesa di un visto per il Canada o gli Stati Uniti.

Nel frattempo, vivono al Rafaelo Resort, una delle strutture alberghiere più estese del litorale, al centro della quale svetta, spalle al mare, una replica della Statua della Libertà. Secondo Ilir, gli afghani «si sono integrati perfettamente, lavorano, studiano». Insieme alle tenute sobrie dei locali e a quelle più sgargianti di europei e turisti kosovari, in effetti la spiaggia è popolata da lunghi e fruscianti caftani, mentre squadre di ragazzini afghani organizzano tornei di beach volley.

Ecco dunque che, tra appena qualche mese, visitando la turistica Shëngjin, nella sua estensione di appena un paio di chilometri, tra una kofta e un narghilè, si potranno osservare i due estremi del sistema di accoglienza contemporaneo: il meglio e il peggio che l’occidente ha da offrire a chi cerca di raggiungerlo.

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