Scambiereste la possibilità di investire in scuole e ospedali con la possibilità di dare soldi a un dittatore tunisino? Nessuno direbbe di sì se la questione venisse posta così, apertamente e con tutti i dossier europei ben squadernati sul tavolo. Ma Giorgia Meloni non dice apertamente che le fanfare sul dossier migrazioni sono fumo, e che l’Italia in cambio di quel fumo si fa mettere all’angolo su una determinante riforma del patto di stabilità.

Per la premier il principale obiettivo in Europa, sin dal suo primo viaggio a Bruxelles a novembre, è sempre stato quello di risolvere il proprio complesso della «underdog», come si definisce lei, e mostrare che «non siamo marziani». O come ha detto questo venerdì, che «l’Italia è credibile, affidabile, seria». Perciò non ha esitato a prendere le distanze da Polonia e Ungheria e a rivendicare come «un cambio di agenda europea» l’accordo inconsistente raggiunto dal Consiglio Ue sul patto migrazioni.

E perciò Meloni non ha nemmeno bisogno di trofei: può esibire direttamente Ursula von der Leyen, domenica in Tunisia. Meloni tiene a mostrare che non è isolata, che è «affidabile e seria»; ma davvero difende «gli interessi nazionali» come ha sostenuto in pubblico anche questo venerdì?

Con Ursula al fianco

Mentre era davanti a un microfono e al fianco di Olaf Scholz a palazzo Chigi, giovedì la premier ha sparato l’ulteriore fuoco d’artificio: questa domenica sarà con Mark Rutte e con Ursula von der Leyen in Tunisia. Vista così pare quasi che la presidente della Commissione europea vada dove le chiede la premier: prima si è fatta il viaggio nei luoghi del disastro emiliano-romagnolo, con la premier che invocava aiuti, e ora va a Tunisi, dove la premier rivendica protagonismo.

Von der Leyen abbozza anche perché pregusta il bis alla presidenza della Commissione europea e sa bene che il leader della sua famiglia politica, Manfred Weber, tesse rapporti con Meloni da tempo. In fin dei conti per Bruxelles esporsi in questo caso costa politicamente poco o nulla: l’obiettivo di replicare in Nord Africa il modello Turchia è agognato da Meloni così come da Weber, ed è digeribile perché ha l’obiettivo dichiarato di tenere i migranti alla larga dall’Ue. Come dice Meloni, invece di litigare tra europei su chi ospita, lei tiene uniti tutti sotto l’idea dell’Europa fortezza.

A Tunisi i leader hanno in mente di sbloccare i finanziamenti del Fondo monetario internazionale (circa due miliardi di dollari), fermi non per caso ma perché Kais Saied respinge l’idea di fare riforme; ma se il dittatore non incassa i soldi – è il ragionamento di chi vuol farglieli avere – allora ci saranno ulteriori afflussi di migranti. Una sorta di ricatto, nascosto sotto il titolo meloniano di «piano Mattei».

I piani di instabilità

Oltre all’Fmi, ci sono i soldi dei contribuenti europei in ballo. Giovedì sera il Consiglio Ue ha trovato un accordo sul patto per le migrazioni, e tra i punti che il governo italiano rivendica c’è la creazione di un fondo europeo gestito dalla Commissione a beneficio di paesi terzi di origine e di transito. Ad alimentarlo saranno le taglie da 20mila euro a migrante: lungi dal prevedere una diffusa solidarietà tra paesi, il patto impone una quota esiziale di ricollocamenti – per l’intera Ue 30mila persone all’anno - e chi rifiuta di ricollocare paga. Anche perciò Polonia e Ungheria hanno votato contro.

E dire che l’Italia avrebbe potuto far leva su un precedente ingombrante: con la guerra in Ucraina è stata attivata per la prima volta la direttiva Ue del 2001 che ha garantito protezione in tutti i paesi europei ai milioni di rifugiati ucraini che varcavano la frontiera Ue. Invece il governo Meloni presenta come successo un accordo minimale e che punta soprattutto a respingere. Il sistema Dublino non è azzerato: il criterio del paese di primo ingresso resta, anche se la responsabilità si accorcia in durata. Inoltre la frontiera rigida, che Meloni rivendica come la leva che tiene insieme tutti, implica che l’Italia – in quanto lembo Sud dell’Ue – è sede di procedure di frontiera.

L’Ue ci finanzierà per “rafforzare le capacità ricettive”, ovvero gli hotspot dove svolgerle. Pagare per tenere al di là: vale per Roma con Tunisi e per Bruxelles con Roma. Tutto ciò può tradursi in slogan che appaiono come gesti di attenzione verso l’Italia: «Non lasciamo sola Roma sugli arrivi», ha detto il cancelliere tedesco in settimana. Ma quanto costa politicamente una pacca sulla spalla sul tema migranti?

Mentre Scholz e von der Leyen accarezzano spalla ed ego di Meloni, le urgenze dell’Italia su dossier chiave come aiuti di stato e patto di stabilità sono relegate in zona d’ombra. Sugli aiuti di stato Scholz, con Macron e von der Leyen, si è preso quel che gli serviva, senza curarsi di Roma. E quel che è ancor più grave politicamente è che sta facendo altrettanto sulla riforma del patto di stabilità: già la proposta di Bruxelles non era rivoluzionaria, poi Scholz assecondando l’alleato liberale la vuol piegare ancor di più in direzione rigorista. Davvero pagare Tunisi per i migranti vale la rinuncia a investimenti e spesa pubblica?

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