Senti le urla. C’è il buio e la luce che arrivano piano, mentre le madri scansano i soccorritori per vedere se quel corpo sia di loro figlio. Stretto tra le braccia e il volto rivolto verso il cielo, imprecando la mala sorta e pregando che Dio lo porti indietro. I pezzi sono ovunque, una distesa di centinaia di metri che copre la spiaggia di Steccato di Cutro. Alcuni arrivano nudi sulla battigia. Trascinati sulla spiaggia vengono lasciati lì, attendendo che un sacco bianco copra il volto nascosto di terra. 

È una spiaggia di detriti, vergogna e croci. Tutti accorrono, tutti vedono e lasciano un fiore «perché – dice un passante – non sai cosa sia la morte in mare. Ti rendi conto di tutto, senti che non respiri e che non sopravvivi». Si muovono spostati dalla corrente, il mare è ancora un oscuro cimitero che non rende possibile il recupero di chi in quella spiaggia non è mai arrivato ed è rimasto prigioniero dell’acqua salmastra. Ci sono i piedi di un bambino che hanno toccato per tre volte le gambe di un vigile del fuoco, non fa tempo a mettere la mano in acqua che il corpicino fugge via trascinato dalla corrente e lo vedi allontanarsi da solo. Come da solo è morto, mentre annaspava.

Gente di mare

«Quando sono arrivato non sapevo cosa tiravo fuori. Non riuscivo a distinguere i corpi dai pezzi di legno», racconta Vincenzo Luciano, pescatore e uno dei primi ad arrivare sul posto. «Avevo tra la mani il corpo di un bambino, avrà avuto tre anni. Quando l’ho preso tra la braccia era già morto», dice per poi aggiungere: «Non scorderò mai».

I sopravvissuti sono facce di disperazione, hanno delle coperte termiche che coprono il corpo zuppo. Di bambini non ce ne sono, i bambini sono morti, morti tutti. La mattina sulla spiaggia di Steccato di Cutro ci sono i colori. Da una parte l’oro delle coperte dei sopravvissuti, dall’altra il bianco dei sacchi che nasconde il sacrificio dei morti.

Dentro la palestra di Crotone arrivano i feretri. Le bare sono appoggiate a terra. Un’infilata di marrone, spezzata dal bianco dei più piccoli. Il palazzetto dello sport è ancora chiuso al pubblico, quando la gente inizia ad arrivare. Un dolore comune e parole che vibrano dalla coscienza: «Verità e giustizia». È l’urlo di una folla composta, ma feroce nella sua ricerca. «Potevano essere salvati, potevano essere salvati», dice un anziano. E il mormorio si fa più forte. Cresce in un disgusto generale che pone delle domande: «Perché nessuno ha scortato quell’imbarcazione in porto?».

I crotonesi sono gente di mare, per loro la vita è sacra quando ci si trova lontano dalla costa, sanno quanto il tempo cambi all’improvviso e che è difficile sopravvivere, impossibile se non hai esperienza. Suona la campanella della scuola e gli studenti escono, non vanno a casa, vanno davanti al palazzetto. Lasciano un foglietto con i loro pensieri: invocano il perdono. È una comunità distrutta che si unisce a un popolo che non conosce. Piange morti non suoi. È Crotone e Cutro che diventano fratelli senza confini.

I parenti

Antonino Durso/LaPresse

Apre la camera ardente, tutti si mettono in fila e anche qui le parole si contano prima di entrare dentro: «Il governo non verrà», ricordi loro che il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, è subito arrivato e loro rispondono che se era per dire ciò che ha detto era meglio non venire. Parole giudicate crudeli. Ma si sa, vedere, toccare le bare, sentire le urla è altra cosa che parlare in conferenza stampa. E allora ti volti e vedi i parenti. Una madre entra, scopre la bare del figlioletto e inizia a urlare squartata dentro. Gli ambasciatori afghani le fanno cerchio e quando si accorge della loro presenza si scaglia disperata: «Perché non avete chiamato l’Italia, perché avete fatto morire tutti. Perché?». Il dolore è insostenibile, crolla a terra e sviene. La Croce Rossa arriva con una barella e la porta via. Lo sportello dell’ambulanza viene lasciato lievemente aperto per far circolare l’aria.

Il volontario con un panno bianco le asciuga la fronte, l’accarezza e la guarda con gli occhi di nonno. I parenti si mischiano alla gente comune. Arrivano da ogni parte d’Europa. Prendono un numero e attendono per il riconoscimento della salma. Ad alcuni vengono mostrati solo segni identificativi come spiega Alberto Sciortino, dirigente polizia di stato a capo dell’ufficio immigrazione di Crotone: «Abbiamo mostrato loro i tatuaggi, perché alcuni corpi sono impossibili da vedere. Soprattutto quelli trovati alcuni giorni dopo. Fortunatamente a molti di loro stiamo dando un nome». In pochi sanno che i pesci mangiano gli occhi e che i corpi si gonfiano di acqua. Ad alcuni un nome non sarà mai dato e rimarranno per sempre con una sigla che inizia per K, la K di Crotone.

In spiaggia trovi parenti che scrutano il mare, sperano che il corpo riaffiori. Seguono i movimenti dei soccorritori. «Ma magari è fuggito, ha avuto paura di tutta questa polizia e adesso si trova in qualche casa», dice un ragazzo afghano a un giornalista. Il corpo non ritrovato che ti porta a sperare l’impossibile. Altri cercano tra gli oggetti, vogliono vedere se ci siano dei segni che possano dire con certezza che i loro cari si trovavano in quella barca che si è sgretolata come burro su una secca. C’è chi è venuto e non ha ancora confessato ai genitori che il corpo non c’è, «sta bene, è stato arrestato», inventano. Perché un arresto è meglio di una vita che non c’è più.

Parlare con lo stato

LaPresse

La notizia dell’arrivo di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, è immediata. Una folla si posizione davanti al palazzetto. È giovedì mattina, quattro giorni dal naufragio. Un’oretta prima c’è chi prende posto lungo la strada e chi va sul muretto perché c’è troppa gente. Non vogliono vedere il presidente, i cittadini vogliono parlare con lo stato. «Una visita dovuta», dicono. È una folla senza colore politico, ma unita nel bene primario: il valore insindacabile della vita. «Vogliamo chiedere al presidente di dirci cosa è successo e di fare giustizia», dice una donna. Un altro si avvicina e chiosa: «Anche gli altri dovrebbero avere il pudore e il coraggio di venire». E per altri intende Giorgia Meloni. Una giovane è appoggiata a una transenna: «Sono felice che sia qui Mattarella, ma non deve accadere mai più. Quei morti in mare sono nostri fratelli».

Il presidente si presenta prima in ospedale preceduto da buste di regale. Il volto è scuro, la postura eretta. Rimane all’incirca mezz’ora, poi va verso il palazzetto dove si trovano i feretri. Scende dall’auto e la gente urla «giustizia». Mattarella sente la voce educata della folla ed entra. Una visita privata, anche le immagini che verranno poi diffuse non hanno audio. È Ramzi Labidi, mediatore culturale dell’associazione Sabir, a raccontare come sia successo: «È entrato ed ha abbracciato la madre, una di loro era stesa sulla bara del figlio e lui è andato lì a stringerla. Poi ha chiesto in che modo poteva essere utile. E loro gli hanno chiesto tre cose: come rimpatriare le salme, come riuscire a portare i sopravvissuti via con loro e infine cosa sia successo quella notte». Ramzi Labibi fa una pausa e poi specifica: «Anche loro chiedono, vedono la stampa. Si fanno spiegare cosa scrivono i giornale». C’è un filo sottile ma potente che unisce la piazza fuori dalla sofferenza di dentro: la fratellanza umana.

Giustizia e verità 

Il presidente termina la vista e all’uscita la folla ripete le stesse parole: giustizia e verità. Nessuno ha capito cosa sia successo. C’è chi prima del naufragio non sapeva neanche dell’esistenza di Frontex, ma in questa parte di costa è dal 1993 che i migranti arrivano via mare. Prima gli albanesi, poi i curdi e infine afghani, siriani ma anche pakistani. Un mondo che si mischia e poi continua a viaggiare prima di trovare il suo mondo. Degli allarmi non dati qui, in Calabria, non importa a nessuno. Il concetto è per tutti elementare: con il mare non si scherza e se c’è burrasca si esce. «Se ce lo avessero detto saremmo usciti noi a salvare questi innocenti». È una ferita troppo grande. È un popolo che si stringe a un altro popolo, sgretolando la patria. Braccia che si uniscono e danno senso alla vita. La vita di ognuno.

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