Chiusa la discussione sul voto online alle primarie del 26 febbraio, ammesso ma solo in casi specifici, mercoledì sera alla riunione di direzione Enrico Letta si è fatto solennemente promettere dai suoi dirigenti che da ora in poi il Pd non sarà più sui tg e sulle pagine dei giornali per le risse congressuali ma solo per marcare stretto il governo Meloni.

Cosa possibile, ma non certissima. Perché la via dei gazebo è lastricata di inciampi, e c’è almeno un altro dossier che il Nazareno deve subito affrontare se non vuole finire impigliato in una nuova matassa regolamentare. Il titolo del dossier è Articolo Uno.

Mercoledì, un attimo prima dell’inizio della direzione, un match ruvido fra il plenipoteziario del segretario Marco Meloni e Nico Stumpo, tesoriere di Art.1 e da sempre uomo-chiave di ogni affare delicato, si è concluso con un accordo all’ultimo miglio. Il Pd chiedeva a tutti quelli che vogliono votare al congresso dei circoli di avere la tessera del 2022 o di aver versato la quota per quella del 2023. Cosa impossibile però per i rientranti di Art.1, perché nel 2022 risultano iscritti ovviamente al proprio partito; e entro il gennaio del 2023 non potranno ancora formalmente iscriversi al Pd per l’altrettanto ovvia ragione che non avranno ancora sciolto il partito.

Alla fine è stato allargato a spallate l’articolo 4 del regolamento del congresso, comma 2, quello che regola chi partecipa «con diritto di parola e di voto alle assemblee di circolo». Il punto b dice che, oltre agli iscritti Pd, sono ammessi al voto anche «gli iscritti ai partiti e movimenti politici, alle associazioni e ai movimenti civici che con deliberazione dei propri organismi dirigenti aderiscano al processo costituente», tradotto Art.1, e se non potranno aver effettuato «il versamento della quota di iscrizione al Pd per il 2023» potranno però sottoscrivere «un impegno formale in tal senso all’avvio della campagna di tesseramento 2023» entro mezzogiorno del 31 gennaio 2023. Insomma, gli iscritti di Art.1 potranno votare promettendo di iscriversi successivamente.

Facendo a fidarsi, il problema formale è risolto. Resta però quello politico. Gigantesco, per la Ditta Speranza&Co, orientata all’appoggio di Elly Schlein e alla ripresa dei rapporti con i Cinque stelle e per questo malvista dall’ala riformista. Per rientrare nella casa-madre Pd, cosa che buona parte del gruppo dirigente non vedeva l’ora di fare dopo essersi assicurata una pattuglia di eletti in parlamento nelle liste del Pd, Letta aveva promesso una rifondazione del suo partito: un congresso «costituente», con tanto di allargamento agli esterni e di nuovo manifesto dei valori in versione più radicale e socialista. Gli ex scissionisti di Bersani e D’Alema quindi non sarebbero formalmente tornati nella vecchia casa, cosa improponibile per i loro dichiarati 13.500 tesserati, ma si sarebbero iscritti a un partito nuovo, se non rivoluzionato almeno un po’ cambiato.

Ma da novembre del 2022 le cose sono andate in un’altra direzione. I candidati segretari si sono lanciati nella corsa, il congresso costituente è rimasto sulla carta ed è ormai una formula su cui si intestardiscono Elly Schlein e Andrea Orlando. Il candidato favorito, Stefano Bonaccini, per dire, usa la parola «congresso» senza aggettivi.

Serve la Carta dei Valori

Ora però rischia anche di saltare l’approvazione del nuovo Manifesto (oggi si svolgeranno le ultime riunioni dei sottocomitati). Perché dopo le contestazioni iniziali per una revisione troppo spostata a sinistra, una corrente di pensiero riformista capitanata dal costituzionalista Stefano Ceccanti ha fatto presente a Letta che l’assemblea nazionale uscente, ancorché ribattezzata “costituente”, non è titolata all’approvazione del nuovo manifesto, meglio rimandarne il varo a quella entrante.

Sarebbe un nuovo smacco per Art.1, che già si trova nella scomoda posizione di rientrare nel Pd finendo subito in minoranza: «Ci impegniamo ad aderire alla fine del congresso costituente», spiega a Domani Arturo Scotto, numero due del partito, ma «prima ci sarà l’assemblea costituente dove sarà approvata la carta dei valori, che non è un passaggio secondario. Se non viene approvata, tutta l’operazione è monca. Mettiamola così: il nuovo manifesto è il metro con cui si valuta se c’è un processo costituente o meno».

Insomma, niente nuova carta, niente costituente. E niente ingresso nel Pd? «Il punto è che noi abbiamo preso sul serio il percorso costituente», spiega Scotto, «All’indomani della sconfitta del 25 settembre, abbiamo condiviso con Letta e con larga parte del Pd l’esigenza di aprire una fase nuova. Ma per fare una cosa vera, non un restyling».

Ora tocca a Letta risolvere quest’altro guaio, se non vuole finire sui giornali per un altro pasticcio interno: deve inventarsi un dispositivo che tenga dentro gli alleati ma anche che non manchi di rispetto alla futura assemblea, e cioè al nuovo segretario. Che, volendo, potrebbe anche smontare tutto.

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