Pezzo dopo pezzo, la destra di Giorgia Meloni continua a usare tutti i mezzi possibili per fare campagna elettorale. E provare a drenare consenso a qualsiasi costo. Poco male se ne escono indeboliti i presidi della democrazia, come la libera stampa, il rispetto tra istituzioni centrali e locali e, inevitabilmente, il ruolo del parlamento. Alla lista di questa strategia si è infatti aggiunta una novità rumorosa: la commissione per valutare lo scioglimento del comune di Bari per infiltrazioni mafiose inviata a pochi mesi dal voto per il nuovo sindaco.

L’indicazione è partita dal ministero dell’Interno, guidato da Matteo Piantedosi. Ma l’elenco di clave usate per fini politici-elettorali include anche l’istituzione, con compiti sopra le righe, delle commissioni di inchiesta parlamentari, fino ad arrivata alla commissione Antimafia, diventata grimaldello per colpire avversari politici e mediatici. Senza dimenticare le norme pensate ad hoc per limitare gli organismi indipendenti. Un esempio? La Corte dei conti a cui sono state sottratte funzioni dal Pnrr.

Bari elettorali

Dalla maggioranza e dal governo è andata in scena una sinfonia di giustificazioni, in punto di diritto, secondo cui quello di Bari sarebbe un atto dovuto. Ancora ieri, uno degli esponenti più attivi sulla vicenda, il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, ha sostenuto che «è stata scelta la via, più prudente, dell’accertamento». Niente attacco, dunque, è la versione ufficiale. Un cortocircuito clamoroso da parte di uno storico dirigente di Forza Italia, un partito che al fianco del suo fondatore, Silvio Berlusconi, ha sempre urlato contro la «giustizia a orologeria».

E non occorre l’indovino per immaginare che lo avrebbe fatto pure in questi giorni, se al posto di Antonio Decaro ci fosse stato un qualsiasi sindaco di centrodestra. Tutti gli osservatori hanno notato una tempistica quantomeno sospetta. Un «atto politico» l’ha definito don Luigi Ciotti, che ha difeso il sindaco di Bari: «È un galantuomo, un simbolo che ha sempre lottato contro le mafie».

Indipendentemente dallo scioglimento del comune o meno, la bomba politica è esplosa. Mettendo nel mirino l’amministrazione del sindaco uscente, esponente di spicco del Pd e presidente dell’Anci, che ha sempre tenuto una posizione istituzionale. Ma per la destra è un avversario da azzoppare.

La guida di Bari è un boccone ghiotto per Meloni e i suoi, proprio perché sarebbe un duro colpo per il centrosinistra. La conquista della città, che è stata prima governata da Michele Emiliano e poi da Decaro, sarebbe una stelletta da apporsi al petto.

Anti opposizione

Gli strumenti impropri, usati dalla destra come una fionda per lanciare sassi, sono tanti e vari. Un altro esempio è la commissione Antimafia, affidata alla guida della deputata meloniana Chiara Colosimo. L’organismo, in teoria super partes, sta diventando la rampa di lancio per attaccare un deputato del Movimento 5 stelle, Federico Cafiero de Raho, ex procuratore nazionale antimafia, contro cui sono stati lanciati attacchi per l’accesso ai database, da parte del finanziere Pasquale Striano, su cui è aperta un’inchiesta a Perugia.

A destra fioccano le richieste di un passo indietro del parlamentare dalla funzione di vicepresidente della commissione Antimafia. «Cafiero De Raho deve giustificarsi del suo operato di procuratore nazionale antimafia ed il fatto che sia presente nell’Antimafia è inquietante. Rappresenta un conflitto di interessi che non può essere ignorato», ha scandito il capogruppo al Senato di Forza Italia, Maurizio Gasparri. Ancora una volta i berlusconiani usano locuzioni un tempo bannate dal vocabolario, come conflitto di interessi.

E la stessa commissione Antimafia è usata come un’arena per lanciarsi verso l’informazione, nel caso specifico contro Domani, un giornale sgradito a palazzo Chigi e dintorni. In agenda c’è la convocazione in audizione dell’editore, Carlo De Benedetti, e del direttore, Emiliano Fittipaldi, sempre nell’ambito dell’inchiesta sugli accessi ai database per i controlli sulle situazioni patrimoniali.

Che il fine sia politico, è nelle dichiarazioni messe agli atti. Nella settimana che ha preceduto il voto per le regionali in Abruzzo, la politicizzazione della vicenda ha toccato vette sconosciute. Impossibile sapere gli effetti in termini di consensi. Resta lo scardinamento di principi liberali.

Ma un certa aria si era già respirata ai tempi della battaglia ingaggiata per l’istituzione della commissione d’inchiesta parlamentare sul Covid. Fratelli d’Italia e Lega hanno predisposto un testo, trovando una sponda in Italia viva di Matteo Renzi oltre che negli alleati di destra, che sembra pensato come un processo al governo Conte II, presieduto appunto dall’attuale leader del Movimento 5 stelle. La maggioranza che investiga sull’opposizione è la deriva a cui si approda.

L’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, ha sottolineato come il «clima sia peggiorato» da quando è stata formalizzata la volontà di dare vita a questa commissione. Le funzioni sono messe nero su bianco: sotto la lente di ingrandimento finiranno i banchi a rotelle, gli acquisti di vaccini e tutto l’armamentario propagandistico usato dalla destra durante la pandemia. Più che una commissione sembra un volantino elettorale. E non a caso sono state tenute fuori le responsabilità delle regioni, perché avrebbero riguardato i presidenti leghisti, in primis il lombardo Attilio Fontana.

Per quanto il tema del Covid sia scivolato fuori dai radar del dibattito politico, la destra è pronta ad agitare le vecchie parole d’ordine per blandire l’elettorato No-vax, che può spostare qualche punto percentuale utile per le europee. In questo cortocircuito di usi impropri degli organismi, si è arrivati all’ipotesi estrema di una commissione di inchiesta sul Superbonus, una delle misure bandiera del governo Conte.

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