La corsa a ostacoli delle riforme istituzionali, qualsiasi cosa un contenitore così ampio significhi, è tutta sulle spalle di Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio ha scelto convintamente di intestarsi la pratica e ha intenzione di utilizzarla sia come arma di distrazione di massa rispetto ai ben più impellenti guai del governo, che come strumento politico di egemonia culturale nel centrodestra. Eppure, una scommessa è quasi certamente persa: che la riforma dell’autonomia e quella del presidenzialismo (o semipresidenzialismo oppure premierato) corrano insieme.

Proprio questo era il punto di equilibrio trovato dal governo, per frenare il dualismo tra Fratelli d’Italia e la Lega che Matteo Salvini continua tutt’ora a lavorare per costruire. «Maggiore autonomia per le Regioni e presidenzialismo devono stare insieme perché una cosa giustifica l’altra», aveva spiegato in gennaio il ministro per i Rapporti col parlamento, Luca Ciriani. Impossibile, però, per almeno due ragioni: una procedurale e una politica.

Impossibile parallelismo

Dal punto di vista della procedura la riforma dell’autonomia si approverà con legge ordinaria, il testo quadro è già stato portato dal ministro Roberto Calderoli e approvato in consiglio dei ministri. Inoltre a breve partirà anche la commissione di esperti guidata dal costituzionalista Sabino Cassese per individuare i livelli essenziali delle prestazioni, senza i quali è impossibile ragionare di deleghe alle regioni. Tuttavia, come dice una fonte autorevole leghista, «la scatola c’è, ora dobbiamo attuarla ma l’autonomia è praticamente fatta».

Tutt’altro è il caso della riforma del presidenzialismo, che richiede una revisione costituzionale e quindi una procedura aggravata di approvazione. Una volta concordato il testo, serve una approvazione in doppia lettura alle camere e soprattutto una maggioranza qualificata di due terzi, per non doversi sottoporre alle forche caudine del referendum. È vulgata comune, infatti, che l’obiettivo con cui Meloni ha aperto il tavolo alle opposizioni è certamente quello di rispettare gli auspici quirinalizi di riforme costituzionali condivise, ma soprattutto quello di trovare i voti necessari per evitare la sorte del referendum costituzionale che fece saltare il governo Renzi.

Anche solo per ragioni meramente procedurali sulle tempistiche, quindi, immaginare un percorso parallelo tra autonomia e presidenzialismo sarebbe complicato.

La questione, però, è anche e soprattutto di contenuto politico. La messa a terra della riforma dell’autonomia sarà complicata anche solo nel verificare quali deleghe potranno davvero essere affidate a ciascuna regione richiedente, tuttavia lo slogan è già pronto. Autonomia, infatti, è da trent’anni la parola d’ordine della Lega che prima fu quella del Nord di Umberto Bossi e che oggi sta ritornando in quel perimetro, dopo il flop del progetto di lega nazionale portato avanti da Salvini. I contorni sono politicamente definiti come anche la narrazione pubblica.

Tutt’altro, invece, è il caso del presidenzialismo. Tanto sbandierato in campagna elettorale soprattutto da Fratelli d’Italia ma gradito anche a Forza Italia sull’onda di una antica suggestione lanciata anche da Silvio Berlusconi, in realtà la parola è ancora vuota. Si vagheggia di una «stabilizzazione dei governi» e di un «rispetto del voto dei cittadini nelle urne», come ha detto Meloni dopo il giro di consultazioni. Tuttavia, manca ancora il come e la strada per individuarlo è accidentata anche all’interno della maggioranza. FI aveva in mente un presidenzialismo con l’elezione diretta del Capo dello Stato, come immaginato dal Cavaliere che in campagna elettorale aveva ipotizzato le dimissioni di Sergio Mattarella. FdI, invece, propenderebbe per un rafforzamento del governo, con elezione diretta del presidente del Consiglio e quindi un premierato più che un presidenzialismo.

La strategia della Lega

In questo quadro la Lega ha avuto campo libero ad esercitarsi nel gioco dei distinguo, sia sulle riforme che su tutti gli altri tavoli aperti per il governo. Il presidenzialismo non è nelle corde di un partito che punta all’autonomia regionale e, in questa fase politica in cui la Lega è secondo partito della maggioranza, nemmeno il premierato che amplia i poteri della donna forte al comando è una ipotesi gradita. Il fastidio per l’ipotesi era serpeggiato subito nei gruppi di Camera e Senato e gli ha dato fiato il capogruppo Riccardo Molinari, parlando di «valutare come sarà la proposta» ma «il parlamento non va privato dei poteri di controllo», infastidendo le fila meloniane.

La correzione di Salvini, in cui ha parlato della necessità dei cittadini di «eleggere un governo», è stata però poco decisa. La strategia del ministro dei Trasporti, infatti, è ormai da mesi quella di rinfocolare il dualismo con la premier sfruttando ogni spazio, forte anche del fatto che l’autonomia almeno formalmente è già stata approvata in cdm. Lo ha fatto anche ieri, dando seguito al suo invito di incontro delle sigle sindacali che sono attualmente mobilitate contro le misure economiche del governo. «Massima disponibilità al dialogo» e «elenco dei provvedimenti e interventi in corso», sono state le due direttrici dell’incontro al ministero dei Trasporti con i rappresentanti di Cgil, Ugl, Cisl e Uil.

L’unico segretario generale presente era Pierpaolo Bombardieri della Uil, mentre Maurizio Landini della Cgil e Luigi Sbarra della Cisl hanno mandato rappresentanti. Tuttavia in questo modo Salvini ha aperto una linea di dialogo parallela alla chiusura di palazzo Chigi.

Peccato che il pasticcio sia dietro l’angolo: dopo l’incontro con i sindacati, infatti, il ministro si è lanciato anche sul tema del caro affitti e una nota del Mit ha anticipato la creazione di una nuova «direzione ad hoc dedicata al tema degli alloggi». Nessuno lo aveva avvertito che questa direzione esiste già, proprio tra le numerose stanze del suo ministero.

© Riproduzione riservata