All’ex Cavaliere si potrà chiedere di astenersi, di votare scheda bianca come ha già fatto, di complimentarsi ex post da padre della patria quale oggi si sente. Ma una volta verificato di non avere i voti per andare al Colle, si può chiedere a Silvio Berlusconi, Sua Emittenza emerita, di rinunciare a scatenare una guerra civile come un vecchio Caimano e votare per il secondo mandato di Sergio Mattarella?

E invece a Matteo Salvini si può chiedere di improvvisare un «governo dei leader», un’apertura a Draghi al Colle o una chiusura allo stesso Berlusconi, come è successo ieri. Gli si può chiedere di replicare una delle variegate giravolte sulle chiusure e sul lockdown. Ma è realistico chiedergli di indicare come nuovo-vecchio capo dello stato l’uomo che, nella sua versione, nel 2019 gli ha promesso di sciogliere le camere dopo la crisi del Papeete e non l’ha fatto lasciandolo in una valle di lacrime e di rancore leghista? Che poi il bidone presuntamente ricevuto poteva essere anche il degno finale di una storia iniziata nel 2015 già con il botto. Quando, appena eletto l’ex giudice costituzionale al Quirinale, Salvini lo aveva accolto con benvenuti del tipo «un catto-comunista, fondatore dell’Ulivo, vice di D’Alema, ministro con De Mita, giudice della Consulta che ha fregato agli italiani il referendum per cancellare la legge Fornero. Che palle!»

Nel 2015 per il Colle la Lega aveva votato il giornalista Vittorio Feltri, ora iscritto a Fratelli d’Italia. Forza Italia invece per lo più aveva votato scheda bianca. A lamentarsi a nome degli azzurri della candidatura «provocatoria» era stato Renato Brunetta, oggi ministro del governo Draghi ma all’epoca presidente dei deputati forzisti, che aveva gridato al tradimento del premier Matteo Renzi, e alla rottura di «qualsiasi convergenza che si era delineata sul piano delle riforme costituzionali e della legge elettorale», ovvero il Patto del Nazareno. Quindi sarebbe stato: bianca, bianca, bianca e poi «dalla quarta votazione comunque non voteremo Mattarella», aveva avvertito Berlusconi.

Una provocazione

Mattarella aveva una biografia personale e politica universalmente indiscutibile. Ma per la destra italiana era una provocazione. Per ragioni simboliche: benché uomo mite e da anni defilato dalla politica, il nuovo presidente era il fratello di Piersanti, politico prestigioso e ucciso dalla mafia nel 1980. E quasi tutte le parrocchie della cultura antimafiosa, non solo siciliana, sono irriducibili nemiche di Berlusconi.

Oltre ai simboli, e che simboli, poi c’erano anche le scelte concrete: nel 1990 Mattarella era stato fra i cinque ministri della sinistra Dc, la prima arcinemica del Cavaliere ben prima del Pci, a dimettersi contro la legge Mammì, su cui il presidente del Consiglio Giulio Andreotti aveva messo la fiducia. E la legge Mammì, anche detta dai Dc «legge Polaroid» perché fotografava l’esistente, di fatto consentiva quello che fin lì era un reato, e cioè l’irresistibile ascesa delle tv nazionali della Fininvest (gli ministri altri erano Mino Martinazzoli, Riccardo Misasi, Calogero Mannino e Carlo Fracanzani, Andreotti li sostituì in una notte).

Mattarella era contrario a quel testo, uno dei primi regali pubblici alle reti dell’allora «Biscione»: da ministro dell’Istruzione in quei giorni già parlava di «trasformazione oligarchica delle istituzioni», rifiutava per la Dc la definizione di «partito conservatore» in quanto «la coppia conservatori-progressisti oggi è del tutto opinabile e non spiega la realtà»; quanto alla Mammì, proponeva al suo governo «una posizione più evoluta».

L’uomo era moderato nei toni, ma non nelle opinioni, e infatti questo non gli ha impedito, altri dieci anni dopo, di schierarsi con tutti i popolari italiani contro l’ingresso di Forza Italia nel Ppe. Per Mattarella il solo pensiero di questa entrata era «un incubo irrazionale». È finita che Forza Italia è rimasta nei Popolari europei e invece i Popolari italiani sono entrati nella Margherita, nel Pd e, a Bruxelles, nel gruppo dove siedono anche i socialisti.

Un’altra èra geopolitica che non impedirebbe alla Forza Italia di oggi di votare l’avversario di un tempo? Forse per Berlusconi sì: dopo l’elezione al Colle il Cavaliere ha laicizzato e normalizzato i suoi rapporti con il presidente, salvo singoli episodi. Così come ha ripreso i rapporti con Matteo Renzi, che a sua volta invece li ha progressivamente freddati con il “suo” presidente.

«Non è il mio presidente»

Ma se per Berlusconi le vecchie ruggini potrebbero risultare stinte, se non estinte, con Matteo Salvini gli sgarbi sono molto recenti. E un po’ più difficili da far dimenticare all’elettorato. All’elezione del 2015, il leader leghista non si rassegna. «Mattarella non è il mio presidente», è l’esordio. Poi non partecipa alla cerimonia di insediamento, e il cerimoniale deve affrettarsi ad avvicinare i posti dei leader della destra per non far vedere “il buco”. Si giustifica prima dicendo di non essere stato invitato, poi di non essere andato perché Mattarella «è uno cresciuto a pane e Andreotti, De Mita e D’Alema» e «ha fatto il ministro con la Bindi». Poi, dopo gli attacchi sulla bocciatura del ministro Paolo Savona all’Economia, lo ha continuato a gratificare con la definizione di «presidente dei clandestini», per uno dei tanti dissensi sui diritti dei migranti. Durante il governo gialloverde il Quirinale di Mattarella per il ministro degli Interni è quasi un controcanto, discreto ma puntuale. Fino alla crisi dell’estate del 2019. Salvini ci si imbarca perché, racconta ai suoi, Mattarella gli ha lasciato capire che le camere saranno sciolte. E invece Conte diventa il premier di un altro governo.

Ora sempre più parlamentari dell’ex maggioranza giallorossa puntano sul bis di dell’attuale presidente della Repubblica. Indirettamente lo fanno anche molti del centrodestra, spiegando al leader leghista che a Bruxelles l’appoggio a un bis di Mattarella, per tenere Draghi a palazzo Chigi, sarebbe giustamente apprezzato. Ma perché l’ipotesi si concretizzi Berlusconi, con Salvini, dovrebbe salire in processione da Mattarella come nel 2013 ha fatto con Giorgio Napolitano. Ed entrambi dovrebbero strappare con il loro passato, oltreché con l’alleata Giorgia Meloni. Sempreché Mattarella non tiri fuori dal cassetto il comunicato che Ciampi aveva reso pubblico dopo le molte richieste di rielezione. «Ringrazio ma sono indisponibile», diceva in sostanza. C’è chi giura che questa “lettera” sia stata già scritta.

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