La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio, per quattro appartenenti ai servizi di sicurezza egiziani coinvolti nella scomparsa di Giulio Regeni, il ricercatore friulano sequestrato, torturato e ucciso nel 2016 a Il Cairo. I quattro 007 sono accusati a vario titolo di lesioni personali aggravate (essendo stato introdotto il reato di tortura solo nel luglio 2017) e di concorso in omicidio aggravato. L'inchiesta, coordinata dal procuratore capo Michele Prestipino e dal pm Sergio Colaiocco, sui presunti responsabili, è stata chiusa nel dicembre scorso, ed è basata sulla collaborazione di due testimoni che hanno detto di avere visto il ricercatore torturato in un locale dei servizi segreti dove era detenuto perché considerato «una minaccia per il paese». I nomi dei due collaboratori non sono stati resi pubblici per ragioni di sicurezza.

L’Egitto non collabora

Le azioni della procura capitolina si sono fin da subito scontrate con il muro di gomma costruito dal regime egiziano del presidente Abdel Fattah al Sisi. Il procuratore generale del Cairo ha respinto le accuse italiane e ha detto che «non si conoscono i colpevoli dell’omicidio». Secondo il magistrato, gli assassini di Regeni avrebbero agito «per rovinare i rapporti tra Egitto e Italia approfittando dei movimenti sospetti del giovane». La tesi è stata respinta con forza dalla politica italiana che ha chiesto a più riprese all’Egitto di collaborare e fornire, secondo la prassi giudiziaria italiana, gli indirizzi dei quattro agenti indagati per l’omicidio. La stessa richiesta è stata avanzata a dicembre dal Parlamento europeo che ha approvato una risoluzione che chiedeva al regime di al Sisi di collaborare con il governo italiano e di rilasciare l’attivista e studente di un master dell’università di Bologna, Patrick Zaki. L’Egitto ha finora ignorato le richieste europee a il 19 gennaio ha prolungato la detenzione di Zaki di altri quindici giorni

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