Luigi Di Maio compirà 36 anni tra nove giorni, è nato ad Avellino il 6 luglio 1986, una domenica, mentre era in corso una crisi di governo, il pentapartito presieduto da Bettino Craxi.

Le cronache riportano che quel giorno di estate Amintore Fanfani, incaricato di un mandato esplorativo dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si concesse una riflessione in attesa di ricominciare le consultazioni con i partiti.

In quella domenica il democristiano Mino Martinazzoli e il capogruppo socialista Rino Formica si ritrovarono a duellare a Milano di fronte a una platea di giovani di Comunione e liberazione. Titolo: «Il potere, ci interessa ancora?». Quesito di una certa attualità.

«Riguarda i partiti che non sono in grado di avere rapporti con la singolarità della gente», rispose Martinazzoli. «In Italia è diffuso il potere apparente, mentre i poteri reali, finanziari, militari, sono mondializzati», replicò Formica.

Arrivato a 36 anni, Luigi Di Maio è corteggiato dai centristi di ogni famiglia, coccolato dai giornali per la sua maturazione, è in questo momento l'uomo più invidiato del Palazzo.

La prima ruga

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Vice-presidente della Camera, capo politico del partito di maggioranza relativa, vice-premier, ministro del Lavoro, ministro dello Sviluppo Economico, ministro degli Esteri e ora fondatore di un nuovo partito, Di Maio è il campione del potere apparente, dell'apparenza del potere.

 L'altro giorno al Senato, tra i capelli freschi di barbiere, come sempre, era per la prima volta visibile qualche filo bianco. «I figli ebbero la prima ruga, e la vita consumò su loro la sua prima vittoria», scriveva Pier Paolo Pasolini. L'indizio di una giovinezza perduta, il segno del comando.

Bisognava vederlo all'opera, il ministro degli Esteri, azzimato ai banchi del governo più del premier Mario Draghi che ha quasi quarant'anni più di lui, mentre i suoi uomini gettavano le reti per raccogliere adesioni al nuovo gruppo, una pesca miracolosa. Oppure il giorno dopo, appartato in un angolo dell'aula di Montecitorio con il deputato Sergio Battelli, il suo Franco Evangelisti, e il pd Stefano Ceccanti, costituzionalista, a immergersi dei regolamenti parlamentari come nell'olio di tonno.

Con la sua operazione, la scissione dal Movimento Cinque stelle di Giuseppe Conte, Di Maio è diventato un modello da imitare. Tutti i politici di professione vorrebbero essere come lui. I parlamentari, i sindaci, i civici.

Agili, spregiudicati, spogliarellisti di abiti politici che per altri sono un retaggio da cui liberarsi e che per lui non sono mai esistiti.

Lo paragonano ad Angelino Alfano e a Gianfranco Fini, ma nessuno dei suoi predecessori alla Farnesina e guide di gruppi scissionisti condivide il suo destino, da capo del partito dell'anti-politica a utilizzatore finale del Sistema e infine a stabilizzatore ma anche potenziale acceleratore della decomposizione.

È lui la pagina bianca di cui parlò il presidente Sergio Mattarella nei saluti di fine anno 2017, quella su cui avrebbero dovuto scrivere gli elettori con il voto del 2018.

In quel momento, come ricordano in questi giorni i social scatenati, il Movimento 5 stelle con il suo capo politico si era candidato con il progetto di eliminare dalla Costituzione l'articolo 67, il divieto di vincolo di mandato per i parlamentari.

Nel programma dei Cinque stelle convivevano una multa da 100mila euro in caso di espulsione, abbandono o dimissioni per chi cambiava casacca e la richiesta agli altri partiti di appoggiare un governo di programma guidato da un esponente del Movimento.

I Cinque stelle non potevano tradire il mandato, ma i parlamentari di tutti gli altri schieramenti venivano invitati a farlo.

Il risultato è la legislatura dei 413 cambi di gruppo che hanno coinvolto 280 parlamentari, calcola Openpolis ma per difetto, perché intanto anche l'ex ministra Lucia Azzolina ha lasciato il suo partito di elezione per seguire Di Maio.

Il record è ancora detenuto dal parlamento 2013-2018, con 569 cambi di casacca. Sono le due legislature con la maggiore concentrazione di parlamentari 5 Stelle.

Fallimento o successo

AP Photo/Gregorio Borgia

Oggi il Movimento è di fatto dimezzato rispetto al numero di parlamentari eletti nel 2018 e non è più il primo gruppo alla Camera, dopo aver perso da tempo il primato nell'elettorato.

È il momento di chiedersi se sia la prova del fallimento del Movimento, come ritiene la maggior parte degli osservatori. O se non assomigli, invece, al compimento della missione affidata da Gianroberto Casaleggio a Beppe Grillo e ai suoi discepoli: il discredito finale delle istituzioni rappresentative, la fine della politica, il trionfo di «disordine e ignoranza», secondo la previsione di Vittorio Sgarbi nel discorso più lucido di questa legislatura, il 6 giugno 2018, durante la fiducia al governo dei gialloverdi Di Maio-Salvini Conte uno: «Jung diceva che il limite della Trinità è di non inglobare il diavolo facendo la Quarternità. Inglobiamo i Cinque Stelle e facciamoli morire!».

Ma è successo esattamente il contrario: sono i Cinque stelle che hanno inglobato il Sistema, sospingendolo all'indietro, a un secolo e mezzo fa, quando non esistevano la democrazia rappresentativa, i partiti di massa, le identità.

Il 19 maggio del 2023, se Di Maio sarà ancora deputato eletto in chissà quale formazione, potrà festeggiare da protagonista accanto alla elezione del nuovo parlamento, la XIX legislatura repubblicana, i 140 anni della fiducia al quinto governo presieduto da Agostino Depretis che secondo gli storici ha dato il via a quel fenomeno politico conosciuto come trasformismo.

La seduta alla Camera del 19 maggio 1883 in cui il capo della Destra storica Marco Minghetti abbracciò la Sinistra e votò per il governo guidato dal rivale.

Nelle intenzioni del suo inventore Depretis, il termine trasformismo era «sinonimo di evoluzione», «la legge generale delle cose viventi», la trasformazione dei partiti eliminando la distinzione tra Destra e Sinistra.

Trasformismo come equazione chimica: il passaggio da uno stato all'altro. Trasformismo come «modalità di governo rispetto a una condizione di ritardo», ma anche «ritorno allo stato ferino dominato dagli egoismi», ha scritto Giulio Bollati in L'Italiano (Einaudi): «Distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole dell'avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale».

La corsa al nuovo

Luigi Di Maio (Foto LaPresse)

Qualcosa di simile è avvenuto in Italia un secolo dopo, a partire dal 1992 in poi.

Dopo Tangentopoli, e in anni più vicini, la corsa al nuovo non è stata una semplice trovata comunicativa, un campionario di spot, blog, tweet e Tik Tok. È stata la sostanza della politica.

Nasceva da un'urgenza reale: adeguare le istituzioni, l'economia, gli strumenti di partecipazione (i partiti, i sindacati) a una società che accelerava in modo vertiginoso e spontaneo, senza chiedere, ricevere o accettare una guida della politica.

In mezzo a cambiamenti ancor più rapidi e profondi: i muri caduti, la globalizzazione, la costruzione dell'Unione Europea, il venir meno del vecchio Stato-nazione, la Rete, l'immigrazione, il terrorismo internazionale. E poi, solo negli ultimi due anni, la pandemia e la guerra in Ucraina. E infine, in Europa e nell'Occidente, l'indebolimento, la perdita di senso delle istituzioni democratiche del secondo Novecento, a partire dai parlamenti nazionali e dai governi, troppo deboli e lenti nelle decisioni.

Di questi processi in incubazione in Occidente l'Italia è un laboratorio.

L'Italia è arrivata prima degli altri paesi all'ascesa del populismo e ora sta sperimentando il suo superamento. Nell'attuale legislatura, caratterizzata dall'esplosione elettorale e dall'implosione parlamentare dei Cinque stelle.

Esplosione elettorale, perché il voto del 2013 e del 2018 è segnato dal trasformismo degli elettori prima che degli eletti: accanto ai non rappresentati c'è un elettorato, soprattutto meridionale, che ha sostenuto per decenni gli esponenti del vecchio ordine e che si sposta in massa sugli homines novi invocando una rottura, una discontinuità.

Ma non è una richiesta di cambiamento, è un desiderio di sostituzione, spesso di quinte e seste file che non vogliono mutare platea, agenda e comportamenti, ma soltanto accomodarsi nelle prime.

Non vogliono modificare il potere, ma ereditarlo.

Implosione parlamentare, perché non tenuti insieme da un sistema di valori e di interessi, gli eletti si sono rapidamente adeguati alla necessità di restare al governo, a qualsiasi costo.

L'indifferenza ai contenuti è l'altra faccia della ostilità a qualsiasi alleanza con i vecchi partiti e permette nella legislatura 2018 qualsiasi travestimento.

Di Maio e Conte sono leader mimetici, camaleontici, assumono il colore di chi gli sta accanto.

Sono securitari di destra con Salvini, sociali con il Pd, di sistema con Draghi: almeno lo è ora Di Maio che è ancora al governo, a differenza di Conte. Dall'uno vale uno all'uno vale l'altro il passo è breve.

Trasformismo e governismo

Gli adulatori del Di Maio di oggi sono gli stessi che ieri effigiavano il Conte come profeta del “nuovo umanesimo”, “punto di riferimento del progressismo europeo” o forse mondiale, così come i detrattori di Di Maio sull'house organ del contismo sono gli stessi che hanno difeso e giustificato l'ex presidente del Consiglio in ogni sua disinvoltura, dal tifo per Trump al no alle armi, da Salvini al pacifismo e ritorno.

Di Maio oggi, come Conte ieri, è il punto di incontro tra trasformismo e governismo: si cambia vestito per restare al governo, un obiettivo in sé del fare politica. In un decennio che ha dissolto quel che restava delle forme tradizionali, con le uniche due leggi di riforma approvate.
La fine del finanziamento pubblico dei partiti che con le distorsioni e le ruberie dei tesorieri sui fondi statali prelevati perfino dalle formazioni da loro amministrate (Luigi Lusi della Margherita, Francesco Belsito della Lega) garantiva risorse anche per piccole formazioni di opposizione.

E la legge costituzionale approvata dal referendum del 2020 che ha tagliato del numero dei parlamentari: ovvero un indebolimento della rappresentanza, in un momento in cui sarebbe stato necessario il contrario.

La fine dei territori

Luigi Di Maio (Foto LaPresse)

Di Maio ha annunciato che non farà un partito personale, ma che intende promuovere «una costituente dei territori». Qualsiasi cosa voglia dire, è proprio sui territori che la crisi della politica sta provocando i suoi effetti più devastanti.

I territori sono indeboliti. Stremati da due anni di pandemia e dagli effetti della crisi economica provocata dalla guerra.

Sui territori il Pnrr è lontano. E sul piano politico l'evaporazione delle identità ha provocato un ritorno all'indietro di un secolo e mezzo, al 1896, quando il sardo Francesco Pais Serra, deputato di Ozieri, scriveva in una relazione al governo di Roma che «meno che in pochi centri conservatori e liberali, democratici e radicali sono parole senza contenuto, pullulano nei diversi Comuni i microscopici partiti personali».

I sindaci - quasi tutti maschi - si mettono in proprio, spesso in contrasto con il partito di appartenenza, considerato una casa troppo piccola per contenere il loro progetto o meglio, nella maggior parte dei casi, il loro ego.

Nell'Italia di mezzo che è andata al voto nel turno di elezioni amministrative concluso ieri con i ballottaggi, tra capoluoghi di provincia e non grandi città, e medi e piccoli centri, la moltiplicazione delle liste civiche e l'esercito dei candidati non testimoniano una ripresa della partecipazione e dell'impegno, ma al contrario la volontà delle lobby e dei gruppi di pressione locali di rappresentarsi da soli, senza più la mediazione dei partiti.

Non sono più i partiti che occupano gli spazi della società, come denunciava Enrico Berlinguer nel 1981, ma gli spazi della politica, i consigli comunali, le assemblee elettive, fino ad arrivare al Parlamento nazionale, sono un terreno di conquista di piccoli potentati feroci difensori del loro micro-interesse, perché i grandi interessi hanno preso altre direzioni.

È questa oggi la vera questione morale, non solo il ritorno sulla scena di Totò Cuffaro e di Marcello Dell'Utri che almeno sono visibilissimi e si sa bene chi sono.

Il nichilismo

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Il caso Di Maio, che è anche il caso Conte, è al vertice di questo triangolo. Trasformismo, governismo. E infine presentismo.

L'esito finale della legislatura del cambiamento è una politica senza orizzonte, tutta schiacciata sull'attimo, nonostante il mantra sul futuro.

Il nuovo gruppo parlamentare si chiama Insieme per il Futuro, il futuro del ministro degli Esteri s'intende, ma il nome più autentico sarebbe Insieme per il Presente.

Con tutta questa voglia di futuro il decennio dei Cinque stelle ha prodotto, alla fine, le legislature più impazzite e la stagione più lunga di astensionismo dalle urne della storia repubblicana. Né la democrazia rappresentativa, né la democrazia diretta. Gli eletti senza gli elettori.

Dietro il presente c'è la corsa dei leader verso il nulla, il nichilismo. Ma era questo il tratto più puro del progetto Casaleggio.

Esaurita la scorciatoia delle riforme costituzionali con il fallimento del progetto Renzi nel 2016, svanito il miraggio di una salvifica riforma elettorale come fu il maggioritario all'inizio degli anni Novanta, anche il presidenzialismo e il doppio turno non stanno tanto bene, come si intuisce dalla Francia, la formula magica per governare il paese si riduce a un tutti dentro la maggioranza, all'ombra di Mario Draghi, premier extraparlamentare.

Per chi resta fuori da questo perimetro c'è la prospettiva dell'assenza dal gioco, la fuga dal voto, la protesta rabbiosa e isolata. Oppure il voto a Giorgia Meloni, tocca a lei occupare il posto dell'attacco al trasformismo parlamentare che un tempo fu di Grillo e dei Cinque stelle.

Il tutti dentro, in una maggioranza indistinta, gonfia gli estremismi, come dimostrano le elezioni legislative francesi e la sentenza della Corte suprema americana sull'aborto, il frutto più avvelenato della presidenza Trump.

L'antiglobalismo, lo ricorda il politologo Ario Poletti nel suo libro appena pubblicato dal Mulino, attraversa in profondità le democrazie occidentali e europee.

La chiusura a riccio nel Palazzo allarga, e non diminuisce, le fratture nella società. Se l'alternativa è tra il tutti dentro e l'esclusione di chi sta fuori il gioco democratico diventa asfittico e pericoloso.

Il populismo che hanno incarnato Di Maio e di Conte non si sconfigge con la loro metamorfosi in architravi del Sistema, che semmai aumenta la sfiducia nella capacità della politica di riformare se stessa.

In mezzo c'è il campo, questo sì largo, della ricostruzione di identità politiche fondate su tre strade opposte da trasformismo, governismo e presentismo. Le coalizioni da fissare prima del voto, con la politica e non con le regole parlamentari. Il rifiuto del governo a ogni costo, chi perde le elezioni dovrebbe avere la forza di restare all'opposizione tutta la legislatura o il coraggio di chiedere nuove elezioni, giusto Enrico Letta?

L'orizzonte temporale per un governo di un'intera legislatura, cinque anni, per evitare che la politica sia solo la risposta alle emergenze continue in cui si trova chi governa. Ma per fare questo serve la ricostruzione della politica che in questa legislatura è uscita mortificata da ogni passaggio: le crisi di governo, la maggioranza di unità nazionale, la rielezione di Mattarella al Quirinale.

Identità e cultura politica in grado di reggere l'onda d'urto della necessità che è uno dei motori dell'azione politica, ma non può essere l'unico.

A chi gli ha chiesto se il Pd è costretto a stare sia con Di Maio che con Conte il ministro Andrea Orlando ha risposto secco: «Per forza!». Verrà il tempo delle cose fatte per scelta. Forse.

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