Enrico Letta, segretario del Pd, il suo predecessore Matteo Renzi fece fuori tutti gli alleati e si ritrovò al voto da solo. Lei invece è molto accogliente, ma i suoi alleati vengono meno, vedasi Cinque stelle. Altro che “campo largo”, alla fine per contrappasso lei si ritroverà nella stessa condizione di Renzi?

Dal 14 marzo, il giorno del mio primo discorso da segretario, ho delineato l’idea di Italia che ho in mente. L’obiettivo è mettere in campo un progetto d’Italia per il 2023, e sulla base di quel progetto trovare compagni di viaggio, e chiedere il consenso degli elettori. Non ho mai immaginato che si dovesse fare l’opposto. Nelle amministrative ci siamo mossi così.

E sono fiducioso nel voto del ballottaggio (oggi, ndr), anche se siamo in una condizione difficile. Votiamo in tredici capoluoghi di provincia, e di questi ne governiamo due ma i candidati non sono sindaci uscenti. Sarà importante per capire se il metodo è giusto e funziona. Campo largo è un’espressione geografica, ma quello che conta è il contenuto. Ci confronteremo con tutti, ma per capirci certo non con Giorgia Meloni.

In realtà prima neanche Matteo Salvini era per lei un interlocutore, poi, dopo le note vicende, ci governa insieme. Dopo la guerra in Ucraina si può immaginare un governo con FdI al posto della Lega?

La risposta è no. Questo governo, unico ed eccezionale, poteva essere messo in campo solo con una grande personalità come Mario Draghi in un finale di legislatura come questo in cui la frammentazione del quadro politico è stata una caratteristica mai vista prima. I cambi di casacca avevano superato i 350 prima della scissione di Di Maio. Si voterà l’anno prossimo con un parlamento con soltanto 600 parlamentari, la cui selezione sarà molto più dura. E questo porterà secondo me a un principio d’ordine che durerà tutta la legislatura.

Fra i nostri interlocutori finanziari è passata l’idea che se dopo il voto ci sarà una situazione di bassa governabilità resterà Mario Draghi. Invece la sua linea è “grazie Draghi ma il prossimo sarà un governo politico”?

Le elezioni ci sono esattamente per dire cosa vuole il popolo italiano. A quegli stessi interlocutori io rispondo che c’è il voto, da cui deriva tutta la legislatura. E il voto non è un like a cui puoi fare dislike e risolvere il problema. Il voto ha effetti per cinque anni.

Farà questo discorso anche se vincerà Giorgia Meloni?

Se vince Meloni non ho la possibilità di fare granché. Invece farò di tutto, di politicamente lecito intendo, prima delle elezioni per vincere noi. Ma una volta che gli italiani hanno scelto c’è poco da fare. Chi va al voto con parole ambigue, il giorno dopo viene spazzato via dagli elettori. Le elezioni saranno un momento di radicalità, nei valori ma anche nei comportamenti.

Carlo De Benedetti, il nostro editore, sull’onda della vittoria di Mélenchon in Francia ha scritto al suo indirizzo che quello del malcontento e della crisi non è il tempo per ricette sciape, risotti in bianco, ma per proposte nette, radicali e ambiziose. Soprattutto dopo la “delusione” della rivoluzione mancata del M5s. Avevate una proposta, la dote a diciottenni, che però Draghi in quella fase ha fermato. Su cosa punterete?

Ce ne sono tante. Intanto la sostenibilità radicale: ambientale e sociale insieme. Mercoledì al parlamento europeo solo noi, tra le grandi forze politiche, abbiamo votato la tassa sul carbone alle frontiere europee. Non vogliamo distruggere la competitività delle imprese ma chi produce fuori dall’Europa non potrà importare se non con una sovrattassa.

La dote ai giovani sarà una delle nostre proposte forti. E il salario minimo. E un primo contratto agevolato per l’assunzione dei più giovani: i ragazzi se ne vanno dall’Italia perché il loro primo lavoro è uno stage gratuito, seguito poi da un tirocinio gratuito. Invece il primo lavoro deve essere pagato. Altrimenti è sfruttamento. Tre pilastri: lavoro e giustizia sociale, diritti civili e ambiente.

A proposito del dibattito sul voto francese, lei si sente più Macron o più Mélenchon?

La mia fortuna è di averne viste tante. La prima volta che accompagnai Romano Prodi nella sua prima visita a Bruxelles, nel 1995, le domande che lui riceveva erano: ma lei si sente più Blair o più Zapatero? La storia della sinistra italiana è tutta così.

Io, dopo tutti questi anni, ho l’orgoglio di poter dire che noi siamo noi. E dobbiamo avere la forza di capire che siamo solidali e seri. Chi in Italia si presenta come la copia italiana di qualche modello estero forse ai suoi concittadini non ha moltissimo da dire.

Sui diritti: la legge Zan non l’avete neanche ricalendarizzata. Era solo una bandierina?

Sul ddl Zan siamo una minoranza, non “calendarizziamo” da soli. Abbiamo fatto quello che dovevamo e potevamo fare: ripresentare il testo dopo sei mesi da quella bocciatura vergognosa. Ora proviamo una negoziazione, siamo aperti a un dibattito con le altre forze politiche. Anche sullo Ius scholae siamo in salita. Incrociamo le dita, negli ultimi giorni qualche passo avanti ha cominciato a esserci. Lo dico a bassa voce perché non voglio nulla che crei ostacolo.

Presto avremo di fronte un momento difficile in cui dobbiamo scegliere fra inflazione e recessione. Vi siete concentrati sui diritti civili perché le altre questioni sono più spinose?

No. La questione chiave è declinare la sostenibilità sociale e quella ambientale, la siccità di questi giorni è un dramma figlio di priorità sbagliate. Ho un’idea di metodo: riuscire a essere talmente consistenti da poter evitare ogni volta di doverci inventare i fuochi di artificio. La politica dei bonus è questo, per avere un titolo di giornale. Ma per costruire una società più inclusiva servono grandi azioni strutturali, non una somma di fuochi di artificio ma interventi mirati e duraturi nel tempo.

Il Pnrr che è quello che mancava negli scorsi vent’anni, quando abbiamo totalmente perso il treno degli investimenti. Li dentro ci sono tutte le poste di bilancio che servono al paese. Però si discute sullo 0,02 per cento di quella cifra per fare l’ennesimo fuoco di artificio. Il punto è applicarle, spenderle. L’argomento di giornata in Europa, ovvero il tetto sul gas, è lo scetticismo dei paesi del nord che vogliono evitare che ci sia un prossimo Next Generation Eu. C’è chi dice: ci avete fregato una volta perché c’era la pandemia e non ci fregate più.

È fondamentale la nostra serietà. E l’Italia in questo momento ha una grande capacità di influire. Ieri è successo un fatto storico: è stato dato all’Ucraina lo status di candidato alla Ue, un paese invaso. Non era mai capitato. E così alla Moldavia che i russi minacciano di “essere la prossima”. L’Italia ha guidato questa scelta, Draghi ha convinto Emmanuel Macron e Olaf Scholz a fare un passo che non volevano fare in modo così netto.

Torna il dibattito sull’autonomia differenziata nota come “secessione dei ricchi”. L’Emilia Romagna si era messa in coda alle regioni leghiste. Qual è la sua posizione?

La nostra linea sull’autonomia è che non ci possono essere scelte in questa direzione che non hanno il consenso della Conferenza stato-regioni, senza il consenso di tutte le regioni. Non possono esserci strappi di singole regioni che trattano con Roma. Il Pd esprime cinque presidenti, tutti bravi e che conoscono la loro materia.

In Sicilia il 23 luglio ci sono le primarie di coalizione con M5s. Le farete anche in altre regioni? Giuseppe Conte sarà ancora vostro alleato?

Lasciatemi ringraziare la nostra candidata Caterina Chinnici, e anche Pietro Bartolo, che in Sicilia ha generosamente fatto un passo indietro per il consenso che stava maturando intorno alla candidata. Le primarie sono un fatto costitutivo del Pd, la via maestra.

Il nostro statuto e il buonsenso politico dicono che quando invece c’è un candidato con un consenso davvero largo le primarie non si fanno. Le primarie sono aperte a chi vuole partecipare e in Sicilia sono molto contento che partecipino i Cinque stelle. Sarà l’ultimo voto prima delle politiche. Sulla base di questo discuteremo nel Lazio, in Lombardia, dove la discussione è già iniziata, e in Friuli. Ma con grande serenità.

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