Coulibaly Samba è nato in Senegal, ha poco meno di cinquant’anni e ha pagato 2600 euro per far entrare in Italia in maniera regolare altri otto suoi connazionali. Allo stesso modo, Diop Chaiko, ha versato poco meno di 2000 euro per far arrivare in Puglia i suoi tre figli.

Così, un altro uomo di origine senegalese, Seck Lahat, ha dovuto invece consegnare 11mila euro per presentare 37 richieste di ingresso attraverso il decreto Flussi, il quale è attualmente l’unico strumento in possesso di un cittadino straniero nato in un paese fuori dalla Comunità europea per lavorare e vivere più o meno stabilmente nel nostro paese. E, tuttavia, i soldi versati da questi uomini non sono andati allo stato italiano, ma a rispettabili imprenditori italiani, di Monteroni precisamente, un piccolo comune alle porte di Lecce.

Il meccanismo fraudolento è stato scoperto il 26 marzo scorso da un’operazione congiunta della Guardia di Finanza e dei Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro, che hanno posto agli arresti domiciliari tre persone: Antonio Romano, Paola Tarantino, Gabriele Madaro; tutti accusati, in concorso tra loro, di aver prodotto in maniera fittizia: atti, documenti, attestazioni, impegni all’assunzione di queste persone, «a garanzia di un fittizio rapporto di lavoro subordinato presso imprese agricole a loro riconducibili», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Lecce, Anna Paola Capano, su richiesta della locale procura.

La procedura

In sostanza, gli imprenditori Romano, Tarantino e Madaro, titolari rispettivamente delle imprese Agrisalento, Terra Noscia, e Madaro Gabriele, avrebbero – secondo l’accusa a loro rivolta – avrebbero «consentito ai cittadini stranieri di ottenere il rilascio dalla prefettura di Lecce del nulla osta che permettesse agli stessi lo svolgimento di attività lavorativa, propedeutica al rilascio del permesso di soggiorno».

È quanto previsto dal decreto Flussi, che è lo strumento di programmazione transitoria dei flussi di ingresso dei lavoratori non comunitari nel territorio dello stato. È l’atto amministrativo con cui il governo stabilisce ogni anno quanti cittadini possono entrare in Italia per motivi di lavoro.

È una procedura che dovrebbe essere quasi gratuita per il cittadino straniero, ma che nei fatti, però, si ritrova a dover pagare diverse migliaia di euro a intermediari, sia di nazionalità italiana, che dei paesi di origine. È il meccanismo per aggirare la legge sui Flussi, che, come vedremo, è molto più semplice e ramificato di quello che si pensi. Ma andiamo con ordine.

La truffa al ministero

A Lecce, come è emerso dall’informativa allegata agli atti, gli imprenditori coinvolti nella frode hanno presentato mediante il portale del ministero dell’interno numerosi modelli di assunzione al fine di ottenere il nulla osta per l’impiego lavorativo, per un totale di 909 persone. Peccato che queste imprese, di lavoratori non ne avrebbero avuto bisogno, trattandosi di aziende con una «inconsistente e marginale operatività», si legge negli atti.

Addirittura Terra Noscia, l’impresa di Paola Tarantino, alla camera di commercio di Lecce risulta essere stata registrata come una pizzeria senza dipendenti, eppure ha presentato 142 domande al ministero. La stessa imprenditrice risultava percettrice del reddito di cittadinanza. «Il decreto flussi è l’unica maniera sicura e regolare per chi vuole entrare in Italia per lavorare, ma, nei fatti, per come questo strumento è concepito e funziona, si presta bene a chi vuole truffare e sfruttare le persone straniere», ragiona uno degli investigatori che hanno condotto le indagini. Ma non c’è solo Lecce.

Anche in altri casi, da nord a sud, le inchieste giudiziarie hanno puntato il faro sulle truffe commesse da “rispettabilissimi” imprenditori italiani e intermediari – tra consulenti, commercialisti, professionisti – per aggirare il decreto Flussi.

Due volte vittime

Non si tratta però soltanto di un sistema di sfruttamento dell’immigrazione clandestina, come dicono i reati contestati agli indagati e le leggi italiane. Si tratta di una disfunzione istituzionale. Lo spiega bene il lavoro di Papia Aktar, operatrice legale e mediatrice negli Sportelli sociali di Arci Roma frequentati ogni giorno da decine di cittadini stranieri che sono due volte vittime: ingannati dagli intermediari, e non riconosciuti come meritevoli di permesso di soggiorno, nonostante siano entrati in maniera regolare.

«Questo accade anche perché le nostre autorità rilasciano il nulla osta, e tutti i documenti relativi al decreto Flussi, solo in italiano così da risultare incomprensibili alla stragrande maggioranza dei nuovi arrivati. È questo il punto». Spiega Aktar a Domani: «C’è una domanda da cui partire per affermare che il meccanismo produce queste distorsioni. La maggior parte delle persone che arrivano dall’Asia con i flussi, si trovano nei paesi di origine. E io mi chiedo: chi mette in contatto per primo un imprenditore anonimo di una provincia italiana con un ragazzo della comunità del Bangladesh o dell’India, per esempio? Come fa ad avere il suo passaporto per presentare la domanda?».

Secondo Aktar, «è ovvio che c’è di mezzo un’intermediazione, che sia anche familiare, in qualche modo anche filantropica, però, la procedura prevede alla base sempre una mediazione. Serve qualcuno che dica al datore di lavoro: chiama mio cugino, mio fratello, oppure chiama questa persona, a volte a fronte di un corrispettivo in denaro, le casistiche sono tantissime».

Continua l’operatrice: «il problema è a monte, perché non esiste una lista pubblica di lavoratori che si possono iscrivere nei paesi di origine sulla base delle loro competenze e formazione. Il datore di lavoro chiama una persona a discrezione che, in alcuni casi, può essere già presente nel nostro paese da irregolare, per esempio. In questo modo, la persona deve prima partire, per poi ritornare con la speranza certificata di un permesso di soggiorno e un lavoro regolare, ottenuta con un doppio nulla osta dal ministero dell’interno italiano e dall’ambasciata del suo paese di origine. Arrivando a pagare anche 15.000 euro, a diversi intermediatori, per questo», conclude la donna.

Finta sanatoria 

Domani ha incontrato in diverse città italiane persone di varie nazionalità che sono entrate regolarmente in Italia ma che non vengono riconosciute come tali dalle questure, perché una volta entrate, il loro datore di lavoro è sparito e non rintracciabile, perché le domande venivano presentate per truffare l’Inps o soltanto per far entrare lavoratori e lavoratrici dietro compenso, come nel caso di Lecce. Sono persone straniere doppiamente vittime, oggi costrette a trovare così impiego per qualche euro l’ora nelle fabbriche tessili della Campania, nelle campagne pugliesi, o in quelle del basso Lazio, per ripagare così il debito contratto con i loro villaggi e città di origine.

 «Sia i datori di lavoro onesti che vogliono agire rispettando la legge, che i cittadini stranieri che vogliono far entrare in sicurezza i loro familiari in Italia, risultano i più danneggiati dal decreto Flussi», racconta Giorgia Giordani, operatrice legale in un centro di assistenza fiscale in provincia di Roma.

Giordani segue da circa dieci anni questo tipo di pratiche, e spiega a Domani: «si tratta da una parte di una finta sanatoria, cioè di una regolarizzazione mascherata, dall’altra, di un meccanismo che permette di assumere persone con un salario basso, per sfruttarle. Questo è particolarmente evidente da quando hanno aperto le quote per il lavoro domestico, settore dove è ancora più semplice certificare i requisiti del datore di lavoro. Per il resto, in questa zona, riscontriamo, in particolare, aziende edili che hanno in pancia lavoratori in nero di nazionalità albanese e macedone, che usano il decreto Flussi per regolarizzarli. Nella migliore delle ipotesi», conclude Giordani.

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