La presidenza meno longeva della storia repubblicana. Un anno e mezzo soltanto il periodo trascorso da Antonio Segni alla guida della carica monocratica più importante. La presidenza Segni rimarrà però nella storia per la vicenda del “Piano solo”, poiché sarebbe stato attuato all’uopo soltanto dall’arma dei carabinieri.

Il piano fu elaborato nel 1964 dal comandante dell’arma dei carabinieri con l’avallo del presidente della Repubblica, il quale tra l’altro convocò proprio al Quirinale lo stesso Giovanni de Lorenzo, durante la fase di consultazioni per la formazione del governo, senza che mai questa vicenda sia stata mai del tutto chiarita.

Il progetto prevedeva azioni repressive nei confronti di politici, intellettuali, e figure di rilievo che fossero state ritenute pericolose, soprattutto esponenti della sinistra, e l’occupazione della Rai. Queste azioni sarebbero state svincolate dal controllo dei civili/governo, ma gestite direttamente dai militari. Una questione dai contorni inquietanti, anche se la storiografia ritiene fosse un’arma di pressione su Aldo Moro e Pietro Nenni per accettare posizioni più moderate per il centrosinistra e non un vero tentato golpe. Nenni comunque parlò di «tintinnar di sciabole».

Segni siglò i Trattati di Roma da presidente del Consiglio sotto la presidenza di Gronchi, europeista convinto sostenne una stretta cooperazione con gli Stati Uniti. Di origini familiari nobili è stato tra i fondatori della Democrazia cristiana di cui fu deputato sin dall’Assemblea costituente. Sul piano simbolico e diplomatico, va segnalato l’incontro con Giovanni XXIII, primo pontefice a salire al Quirinale e segno di una riconciliazione tra stato e chiesa.

Il candidato di Aldo Moro

Aldo Moro lo sostenne contro le ambizioni di rielezione avanzate da Gronchi, sia per ostilità politica verso quest’ultimo, ma anche per un disegno strategico più ampio, ovvero avere un uomo al Quirinale non ostile al futuro centrosinistra in via di varo. E Segni era, non solo antifascista, ma era sempre stato vicino alle posizioni della sinistra Dc e dialogante con socialisti e comunisti.

Un caso emblematico fu la collaborazione con Fausto Gullo, comunista, per il varo della legislazione a favore della distribuzione delle terre dai latifondi ai contadini del centro-sud. La maggioranza che sostenne l’elezione di Segni era diversa a quella che sosteneva il governo e fu, dunque, in qualche misura propedeutica al nuovo schema di azione, ossia al centrosinistra, di cui l’elezione presidenziale fu il primo atto.

Segni fu eletto al nono scrutinio con una risicata maggioranza (52 per cento), a malapena sufficiente per superare il quorum richiesto. I suoi sostenitori provenivano principalmente dalla Democrazia cristiana, ovviamente, ma anche dai missini che risultarono determinanti e dai monarchici. Uno scherzo della storia: proprio durante il voto di fiducia al suo secondo governo, Segni aveva denunciato di non volere il sostegno del Msi allorché si rese conto che sarebbe stato decisivo. Un contributo, forse simbolico, ma probabilmente significativo, provenne anche da alcuni parlamentari “di sinistra” sardi, gruppo subito denominato “Brigata Sassari”, di cui era nativo.

La sua elezione fu alquanto complicata nonostante la palese copertura e spinta politica proveniente da Moro, di cui Segni era sostenitore ed esponente di spicco della corrente maggioritaria (dorotei). I problemi erano una sfida interna alla Dc e una interna alla coalizione di governo. Dopo un presidente liberale (Einaudi) e uno democristiano (Gronchi), i socialdemocratici puntavano a eleggere Giuseppe Saragat elogiandone le virtù antifasciste di indiscutibile tempra democratica, ma anche chiaramente anti-comunista e atlantista.

L’abilità diplomatica di Moro e la sua capacità di risolvere problematiche complesse produssero un metodo di selezione del candidato presidenziale per la Dc in grado di contenere al minimo il rischio defezioni. Moro propose che il candidato democristiano sarebbe stato colui che avesse raccolto la maggioranza assoluta dei voti tra i gruppi parlamentari e i delegati regionali purché avesse partecipato alla consultazione almeno i due terzi di essi. Così fu, e i sabotatori non poterono che accodarsi. Una volta risolta la contesa interna alla Balena bianca, il resto apparve decisamente meno preoccupante. Tuttavia, Saragat rimase quale candidato e contendente, sebbene alla fine fu staccato da Segni per oltre cento voti.

La minaccia dello scioglimento

Segni nominò tre senatori a vita, avendo cura di ponderare la loro provenienza politica (Parri, Merzagora, Ruini) e nessun giudice costituzionale. Il terzo presidente della Repubblica rinviò per otto volte alle camere dei progetti di legge sprovvisti di copertura finanziaria e contrastò i disegni di legge relativi alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e ai contratti agrari. Sebbene coraggioso sui patti agrari, Segni era esponente della componente moderata della Dc, e per questa ragione scelto da Moro, in chiave rassicurante per l’ala più conservatrice in prospettiva dell’apertura al centrosinistra.

Durante la sua presidenza, Segni affrontò tre crisi di governo che però non generarono particolari tensioni, ma anzi confermarono la solidità e stabilità complessive della coalizione (Dc, Psi, Psdi, Pri). Il presidente si limitò ad alcune scelte transitorie, come il governo Leone (I), funzionali a far decantare eventuali frizioni, ma in chiave di riprova del centrosinistra, anche per eludere o mitigare i sempre presenti tentativi di quanti, nella Dc e nella coalizione, lavorarono per un ritorno al centrismo o per imbarcare la destra. O, al limite, seguendo l’opzione di un tecnico in una situazione emergenziale. In una qualche misura Segni agì in questa direzione convocando varie volte Merzagora, senatore, politicamente non schierato, ma legato ad ambienti finanziari, e propugnatore di soluzioni emergenziali. Inoltre, Segni fece balenare l’ipotesi dello scioglimento anticipato delle camere al fine di superare velocemente la crisi di governo.

Il messaggio alle Camere del 1963 rappresenta il caso più eclatante quanto a tematica di ri-elezione presidenziale e prerogative del capo dello stato. Segni, infatti, nel celebre messaggio avanzò l’idea di abolire il “semestre bianco” e la non immediata rieleggibilità del presidente. Si trattava del primo ricorso da parte di un presidente alla facoltà conferitagli dalla Costituzione (art. 87) e poi perché conteneva proposte di modifica della Carta costituzionale. In particolare, sui giudici costituzionali, sulla durata del loro mandato e sulle procedure di elezione dei magistrati; tematiche ancora oggi in agenda. Quel messaggio, preparato con il sostegno e il confronto di eminenti giuristi, non venne mai discusso in parlamento.

Il presidente del Senato Merzagora esercitò le funzioni del capo dello Stato durante la fase della convalescenza e fino alle dimissioni di Segni che avvennero quasi liberatorie, consolatorie, per la classe dirigente imbarazzata per l’ipotesi di dover destituire un presidente ammalato, ma soprattutto non concordi su chi fosse preposto – parlamento o Corte costituzionale – a decretarne l’incapacità permanente e, quindi, la destituzione.

Segni, cronicamente cagionevole (“ammalato di ferro” lo definì De Gasperi), ebbe un malore durante un accesso confronto con Moro e Saragat a margine del varo del secondo governo Moro, e forse sulla vicenda de Lorenzo, e fu costretto al ricovero.

Finiva così la terza presidenza della Repubblica, la più breve sino a ora, ma molto intesa.

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