La storia dell’estrema destra italiana è fatta di rigetto, isolamento, esclusione. Reietti e parìa, per colpa e per destino. Per scelta e sbandierata coerenza. Per condizione strutturale, per ragioni interne e internazionali.

La destra neofascista non faceva parte dell’arco costituzionale non avendo votato la Costituzione, fondata sulla Resistenza e l’antifascismo, e dicendosi erede della becera e tragica esperienza del criminale governo fantoccio di Salò.

Il trauma mai superato del 25 luglio 1943 e del 25 aprile 1945, la sconfitta militare, il tradimento del re e la sua fuga vigliacca. La destra, evitata l’epurazione per una scelta troppo realista di alleati e di Pci-Dc, rimase nei gangli dell’amministrazione pubblica, imboscata e silente, covando rancore e aspettando vendetta.

Nel primo Dopoguerra il tormento che ha attraversato il Msi, riguardava la strada da perseguire: legalista o rivoluzionaria. A parte incursioni parlamentari ed efficaci influenze politiche istituzionali (nel 1960 con il governo Tambroni e nel 1971 determinante per l’elezione al Quirinale di Giovanni Leone), il Msi rimase marginale.

Da partito antisistema ebbe fortune elettorali alterne. Tra il 1948 e il 1992 si attestò al 5,5 per cento in media, ma il dato più importante lo raccolse nel 1972, premio per la scelta di Giorgio Almirante di destra “moderna” e il varo, invero formale più che sostanziale, di Destra nazionale, e l’alleanza con i monarchici (8,7 per cento e 56 deputati).

La svolta del 1972

Tra il 1972 e il 1992 rimase nel limbo o meglio ai margini del sistema partitico e politico. La solidarietà nazionale, il compromesso storico, e l’affare Moro ne restrinsero l’agibilità politica. Il Msi provò a entrare nel dibattito chiedendo la pena di morte e leggi speciali per affrontare il terrorismo, ma l’accordo istituzionale tra Dc e Pci non incrinò il fronte repubblicano.

L’omicidio Moro e la fine dell’unione nazionale furono prodromo del futuro pentapartito. L’azione del quale polarizzò i due partiti anti sistema che aumentarono gli attacchi alla Dc e ai suoi alleati. Sul versante elettorale però i consensi al Msi rimasero stabili, in lieve flessione, lontani dai fasti del 1972.

Il crollo del Muro

La fine del primo sistema partitico della Repubblica ha rappresentato un cambio di fase anche per i neofascisti. Crollò contemporaneamente la conventio ad excludendum e l’esclusione dal sistema del patto costituzionale e anche lo splendido isolamento. Complice la riforma elettorale che sia a livello locale che nazionale indusse i partiti a coalizzarsi, pena l’irrilevanza. La posizione del Msi sui referendum che contribuirono a scardinare il sistema partitico fu contraddittoria. Nel 1991 (preferenza unica) sostenne l’abrogazione per avallare il clima antisistema, mentre nel 1993 (maggioritario) la leadership si orientò per il No, convinta che il sistema proporzionale potesse consentire di rimanere in vita evitando l’isolamento.

Il Cavaliere nero

La fine del comunismo, il biennio 1989-1991, e l’estinzione della logica del pilastro/baluardo anticomunista immersero il Msi nel sistema partitico rilevante senza che fosse necessario un ripensamento del passato, un lavacro purificatore.

Il sostegno di Silvio Berlusconi a Gianfranco Fini alle comunali di Roma del 1993 gettò le fondamenta dell’alleanza. Da attore solitario, isolato, la destra post missina diventò parte di una coalizione stabile nonostante alcune divisioni soprattutto post elettorali.

Il 1994 consegnò a Fini cinque milioni di voti (14 per cento), prestazione migliorata nel 1996 sebbene la destra perse per la defezione della Lega nord, mentre nel 2001 e nel 2006 An veleggiava sui quattro milioni di consensi, sebbene nel primo caso ottenne pochi seggi in ragione della marea azzurra del Cavaliere. La svolta culturale si ebbe nel 2008 più che con Fiuggi, con il Pdl che fagocitò An e costrinse Fini ad accodarsi. Una forte emorragia di consensi che scapparono a favore della Lega, sull’estrema destra residuale.

Il peso della destra nella coalizione indica quanto sia cambiato l’equilibrio tra i soci. L’incidenza del partito di Meloni, nato nel 2012, è rimasta esigua fino al 2018, tanto da indurla a una scelta solitaria di opposizione a tutti i governi della legislatura. Oggi FdI pesa il 61 per cento dei voti e il 52 per cento dei seggi della coalizione. Un cambiamento di paradigma, di prospettiva, di coalizione dominante. La destra estrema da ancella è diventata matrona. Resta da vedere se e per quanto la destra estrema guiderà la coalizione e riuscirà ad assorbire risorse da Lega (nord) e FI per una stabile egemonia.

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