Ci sono sentenze che cancellano leggi regionali pezzo dopo pezzo. E ce ne sono altre che, pur con qualche taglio chirurgico, ne salvano l’anima. La decisione con cui la Corte costituzionale si è pronunciata sulla legge della Regione Toscana, dedicata all’attuazione delle sentenze sul fine vita, appartiene a questa seconda categoria.

Il governo Meloni aveva chiesto di fermarla. La Consulta ha risposto: no, non così. Il cuore del ricorso statale era politico e giuridico insieme: secondo Palazzo Chigi, la Toscana avrebbe invaso competenze esclusive dello Stato, dall’ordinamento civile ai livelli essenziali di assistenza. Ma la Corte, nella sentenza decisa il 4 novembre 2025 e pubblicata il 29 dicembre, smonta punto per punto questa tesi e afferma un principio chiave: organizzare non significa legiferare sul diritto, e la Regione si è mossa, salvo alcuni eccessi, entro questo perimetro.

Lo si legge chiaramente quando la Corte afferma che la legge toscana «non prevede – né potrebbe prevedere – un livello essenziale di assistenza, limitandosi a regolare profili organizzativi delle strutture sanitarie regionali». È qui la linea di confine: la Toscana non ha creato un nuovo diritto al suicidio assistito, ma ha costruito le condizioni amministrative perché un diritto già riconosciuto dalla Consulta non restasse lettera morta.

Dove è intervenuta la Corte

Uno dei nodi più delicati riguardava i comitati etici. Il governo sosteneva che solo quelli individuati dai decreti ministeriali del 2023 potessero intervenire. La Corte risponde secca: l’attribuzione ai comitati per l’etica clinica toscani della funzione consultiva «non contrasta con le fonti statali evocate».

Anzi, richiama l’intesa in Conferenza Stato-Regioni dell’11 gennaio 2023, dove si riconosce che, nelle more di una legge nazionale, «i pareri previsti con riferimento al suicidio medicalmente assistito continuano ad essere di competenza dei Comitati etici» già operanti sul territorio.

Nessuna confusione neppure tra il ruolo delle commissioni multidisciplinari e quello dei comitati etici. Le prime verificano le condizioni cliniche, la capacità di autodeterminazione, la persistenza del proposito di morire; i secondi tutelano le situazioni di vulnerabilità attraverso un parere etico. «Si tratta di funzioni diverse», scrive la Corte, escludendo sovrapposizioni indebite.

Uno spazio creato dall’inerzia

Certo, non tutto passa. Alcuni articoli e commi vengono dichiarati incostituzionali: decadono l’articolo 2, parti degli articoli 4, 5, 6 e 7. Sono le norme in cui la Regione aveva spinto troppo in là la mano, trasformando l’organizzazione in qualcosa di simile a una disciplina compiuta degli effetti giuridici del fine vita, o introducendo deleghe e automatismi non compatibili con la natura delicatissima della materia. Qui il Governo ottiene ragione. Ma è una vittoria parziale, mirata, che non scalfisce l’impianto complessivo.

«Al di là degli aspetti tecnici, il punto fondamentale della sentenza è politico: la Corte conferma che le Regioni possono intervenire sugli aspetti organizzativi necessari a dare piena attuazione alle proprie decisioni sul suicidio assistito, anche in assenza di una legge nazionale», spiega a Domani Angelo Schillaci, professore di Diritto pubblico comparato alla Sapienza. «Un legislatore nazionale ancora gravemente inadempiente. La Corte ribadisce l’esistenza di un diritto al suicidio assistito alle condizioni da essa stessa fissate: un diritto che lo Stato può quindi solo disciplinare, ma non negare».

Per capire perché questa sentenza rappresenti una vittoria politica e istituzionale per la Toscana, basta confrontarla con un’altra decisione recente della Consulta: la n. 196 del 2025 sulle professioni turistiche. In quel caso, la Corte ha bocciato in modo netto ampie parti della legge regionale toscana, ricordando che «al legislatore regionale è precluso istituire e disciplinare nuove figure professionali», requisito che spetta allo Stato. Qui, sul fine vita, accade l’opposto. La Toscana non inventa figure. Dove prova a farlo viene fermata.

Ma per il resto, la Consulta riconosce che la Regione si muove dentro lo spazio lasciato aperto dall’inerzia del legislatore nazionale. Il messaggio finale è chiaro, ed è anche politico: quando lo Stato non decide, le Regioni possono (e in certi casi devono) organizzare. Possono costruire procedure, responsabilità, garanzie. Non possono sostituirsi al Parlamento, ma nemmeno restare immobili: come tutti sanno, quando si è sulla fune a restare immobili si cade. La Toscana ha camminato sul filo. E non è caduta.

© Riproduzione riservata