La giornalista 50enne malata di sclerosi multipla è morta dopo essersi autosomministrata un farmaco letale. È stata testimone dell’autodeterminazione fino all’ultimo, ha dedicato le sue ultime energie a smontare pezzo a pezzo il testo di legge sul fine vita che il governo ha portato in parlamento
«La vita è bella e per me il mondo resterà sempre tremendamente interessante», ripeteva Laura Santi. Era appassionata di tutto, era affamata di sapere come sarebbe andata a finire, era una giornalista. «Cosa succederà a Gaza? Io lo voglio sapere».
Laura Santi aveva 50 anni, quando ne aveva 25 i medici le avevano detto: hai la sclerosi multipla. Negli ultimi dieci la malattia si era accanita sul suo corpo. «Voi mi vedete così. Ma non sapete cosa sento». Muoveva solo la mano e l’avambraccio destro, e la testa. «La testa ce l’ho lucida, fin troppo», scherzava. «Non ho mai mollato, ma non si può guarire di sclerosi, è una malattia spietata, irreversibile, progressiva».
Raccontava dell’intestino da svuotare artificialmente, della fatica neurologica che la costringeva a stare al buio e al silenzio per metà giornata, del marito costretto a fare il caregiver. Di un nemico invisibile, il caldo che accentuava «il calvario, lo strazio, la tortura». Per questo chi di noi l’ha conosciuta sapeva che la notizia poteva arrivare da un momento all’altro.
L’associazione Luca Coscioni, di cui era consigliera generale, ha reso pubblico che Laura Santi è morta nella sua casa di Perugia, applicando il protocollo sanitario di suicidio medicalmente assistito arrivato dalla Asl Umbria a giugno, dopo un lungo iter.
Autodeterminazione
Il suo caso rientrava in pieno nei requisiti fissati nel 2019 dalla Corte costituzionale nella sentenza sul suicidio assistito intitolata a Fabiano Antoniani, DJ Fabo, per cui Marco Cappato fu dichiarato non punibile. Laura ha scelto di oltrepassare il confine. Di saltare il parapetto, la sua immagine ricorrente. «Il parapetto è qualcosa su cui ti affacci nel vuoto. Il pezzo di carta della Asl ti dice: ti vuoi buttare? Ci pensi e poi rispondi: grazie no, non lo farò domani, e neppure dopodomani. Ma poi avrò la libertà di decidere».
Della autodeterminazione Laura è stata testimone fino all’ultimo, ha dedicato le sue ultime energie a smontare pezzo a pezzo il testo di legge sul fine vita che il governo ha portato in parlamento. «Una legge fatta male è peggio di nessuna legge. I politici fanno di tutto per ostacolare il fine vita, i governi di destra, ma anche quelli di sinistra, non hanno avuto il coraggio di fare una legge decente. Ora quelli di Dio Patria e Famiglia vogliono il comitato etico, vogliono togliere il servizio sanitario nazionale e inserire l’obbligo di cure palliative che non servono a nulla. Si stanno prendendo gioco delle sofferenze di malati gravissimi».
Chiedeva: «Giorgia Meloni ascolterà? Il fine vita non è questione di destra o di sinistra, io so che le persone stanno da questa parte. Ho una marea di amici cattolici, si chiama pietas». Nella sua ultima lettera ha ricordato «un amico speciale», il vescovo Ivan Maffeis, che per Laura Santi ha usato parole delicate e significative: riconoscenza per la condivisione.
Corpo e voce
In questa battaglia Laura ha messo il suo corpo. E la sua voce con la cadenza umbra che avresti sentito per ore, il suo spirito critico, la sua sensibilità, il suo amore per «ogni angolo, ogni luogo, ogni volto, ogni persona, ogni situazione, ogni cielo, ogni colore, ogni minuscola passeggiata», di cui ha scritto nell’ultima lettera. Contagiosa, spiazzante quando parlava della sua scelta: la possibilità di esercitare un diritto, ma anche di non farlo.
«La vita è una e ce la teniamo ben stretta. Ma il fatto di avere questo pezzo di carta della Asl in mano a molte persone fa sopportare di più il dolore. Con questo pezzo di carta dipende solo da me decidere. Ho avuto momenti in cui avevo attivato una data, poi sono tornata indietro. Ho detto: fermate tutto, ho ancora voglia di vivere. Non ti nascondo che ho paura. La mente e il cuore ci sono ancora, ti dicono che il mondo è interessante, che vuoi bene alle persone, però il corpo non ce la fa più, non ce la fa proprio più, tutte le sere mi parla e mi dice che è ora. Sarà il corpo a darmi la risposta, spero che il corpo sarà sincero. Mi dirà: Laura hai vissuto in maniera piena, adesso la tua esperienza può concludersi. Non ho una risposta su quando sarà», mi aveva detto a “Il Cavallo e la Torre”.
Era il 13 giugno, un’altra sera drammatica per il mondo, in diretta scorrevano le immagini dei missili tra Iran e Israele. Come ha scritto Elias Canetti: «È intrinseco alla mia natura rifiutare e odiare ogni morte. L’intima natura del potente consiste nel fatto che costui odia la propria morte, soltanto la sua però, mentre la morte degli altri gli è non solo indifferente, ma necessaria». Mi emozionò ancora di più, in questo tempo osceno, in cui si realizzano genocidi, in cui i potenti prosperano sul massacro dei bambini, ascoltare Laura, parlare con lei non di morte, ma di vita.
Combattere
Laura ha combattuto, morendo. Ha combattuto per una politica che rispetti il confine, il parapetto, che non si arroghi il potere di sostituirsi alle persone nel momento più intimo e assoluto, in nome di una ideologia disumana. Ma anche per la necessità che la sofferenza sia un fatto condiviso, pubblico, che in quel momento nessuno si senta abbandonato.
In uno degli ultimi messaggi, quasi un congedo, mi aveva mandato una sua foto con alle spalle una immagine di Fabrizio De André: «Andiamo avanti, sempre in direzione ostinata e contraria!». Accanto aveva Stefano Massoli, il suo compagno, il suo uomo, è stato accanto a lei sempre, con dedizione e anche con ironia. Laura era bellissima, era una lama, è stata una donna felice, con la sua «fame disperata di vita». Ci ha chiesto di ricordarla così. Non ti dimenticheremo, Laura. Andiamo avanti.
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