Rimanda. Tentenna. Forse ci ripensa, me è possibile che infine Attilio Fontana, presidente della regione Lombardia, decida di presentarsi per rispondere alle domande dei magistrati.

Gli inquirenti lo hanno indagato per la storia dei camici prodotti dalla Paul & Shark del cognato Andrea Dini. La regione Lombardia avrebbe dovuto acquistarli durante la prima ondata di covid-19 della primavera del 2020. Sono 75mila camici che sono stati prima venduti e poi, dopo la scoperta del conflitto d’interessi familiare, in parte donati ad Aria, la stazione appaltante regionale. Fontana si è messo nei guai cercando di fare un bonifico di 250mila euro al cognato, utilizzando un conto svizzero amministrato da una fiduciaria, che ha bloccato il trasferimento dei fondi per mancanza di una valida causale e perfino di una sufficiente disponibilità liquida.

La memoria del cognato

Dopo che a luglio si è chiusa l’inchiesta della procura di Milano, che lo ha indagato ufficialmente per frode in pubbliche forniture, Attilio Fontana ha chiesto ai pubblici ministeri di farsi sentire per spiegare le proprie ragioni e tentare di discolparsi prima che i pm scrivano la richiesta di rinvio a giudizio per lui e per gli altri quattro indagati. Tra ripensamenti e rinvii si è però arrivati fino a ora senza che il governatore si sia presentato. Il tempo stringe e i prossimi giorni potrebbero essere decisivi.

Intanto si è fatto invece sentire il cognato del governatore, Andrea Dini, che ha depositato una memoria difensiva.

Sono 35 pagine fitte di ricostruzione dalle quali traspare la volontà di alleggerire la propria posizione, addossando parte delle colpe allo stesso Fontana. Dopo questi fatti, tra i due pare sia calato il gelo assoluto, secondo la ricostruzione di chi è loro vicino. C’è una conversazione tra Andrea Dini e la sorella Roberta (che è anche la moglie di Fontana) che è depositata agli atti dell’inchiesta ed è evidenziata nella memoria. Dà il senso di quanto la questione sia delicata non solo davanti alla legge ma anche in famiglia. È uno scambio di messaggi che ha per oggetto proprio il bonifico da 250mila euro: per i magistrati questa conversazione ha un alto valore probatorio.

Scrivono nel loro capo d’imputazione i pm Paolo Filippini, Luigi Furno e Carlo Scalas che Fontana «previo accordo con Dini» decideva di pagare «a titolo personale» 250mila euro a Dama, ovvero il valore dei camici fatturati. Un bonifico segnalato dall’antiriciclaggio dell’Unione fiduciaria all’Uif di Banca d’Italia dalla quale peraltro è nata un’altra costola di questa inchiesta, che vorrebbe far luce su un possibile autoriciclaggio in Svizzera di denaro che in passato non sarebbe mai entrato nelle dichiarazioni dei redditi del governatore.

Nella conversazione tra i due fratelli, però, le cose sembrano essere andate diversamente. Dice Roberta: «Mi chiama Attilio... per chiedermi il numero fattura perché ti ha fatto bonifico ma manca numero...».

Andrea risponde con un: «Non va bene un bonifico tra privati. Digli di non farlo, fa più danni». «Spero che non lo abbia già fatto» ribatte la moglie del governatore, chiedendo poi al fratello: «...ma come fa a sapere le tue coordinate poi?».

«Non ne ho idea, a me non le ha chieste. E la banca non le può dare», gli risponde lui e con una certa preoccupazione: «Mica posso fatturarglieli... Mette l’azienda nei casini. Calma e vedremo».

I soldi in Svizzera

Lo scorso maggio anche un altro indagato – l’ex dg di Aria, Filippo Bongiovanni –, aveva gettato tutte le colpe su Fontana. Il manager pubblico, certamente non vicino alla Lega, era stato il primo ad essere indagato per turbata libertà di scelta del contraente, in relazione alla mancata comunicazione del conflitto d’interesse, in una fornitura attribuita senza gara. Poi la stessa Autorità nazionale anti corruzione (Anac), tirata in ballo per dare un parere, aveva però rigettato questa tesi. Il conflitto non esisteva e i magistrati avevano allora riesaminato la questione giungendo alla conclusione che il problema – il disvalore giuridico verso lo stato – stava nella interruzione della fornitura decisa quando parte di essa era stata donata, pensando poi di poter rivendere i 25mila camici mancanti a qualche altra organizzazione contando sull’estremo bisogno di dispositivi anti Covid.

Ai magistrati Bongiovanni aveva dichiarato che non aveva alcun potere per negoziare le decisioni di Fontana, ma questo non era servito a impedirgli di finire nell’atto di chiusura indagini come indagato in concorso con gli altri. Si è prenotato a parlare con i pm anche Pier Attilio Superti, dirigente regionale e persona di fiducia di Fontana che si era prestato a comunicare a Bongiovanni le intenzioni di Fontana e Dini in merito alla fornitura dei camici. Dovrebbe parlare dopo il governatore, se quest’ultimo si presenterà realmente davanti ai magistrati, e probabilmente la sua linea difensiva sarà la stessa del dg di Aria: eseguiva solo gli ordini.

Solo a quel punto i magistrati decideranno cosa fare: la linea tra i tre indagati non è pienamente condivisa, dato che c’è anche chi non vedrebbe negativamente l’apertura a un patteggiamento con una ipotesi di reato rivista al ribasso, ma sembra che Dini non voglia patteggiare. Gli stessi magistrati sono anche in attesa degli esiti della rogatoria in Svizzera sul conto corrente da oltre 5 milioni di euro di Fontana presso la banca Ubs. Sono i soldi che secondo il governatore fanno parte dell’eredità della madre; mentre secondo gli inquirenti sono un autoriciclaggio da reati fiscali per 2,5 milioni di euro. Qualche informazione sull’origine e la movimentazione dei conti potrebbe filtrare, ma al quarto piano del palazzo di giustizia milanese nessuno nutre reali speranze. Perché la semplice evasione fiscale di un italiano per la Svizzera non ha grosso valore. E anzi, per molti decenni ha fatto la sua fortuna.

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